LE PAROLE DELLA SINISTRA: POLITICA

«Figlia del movimento operaio oggi è un presidio delle élites»

 

Intervista a Fausto Bertinotti di Alessandro Antonelli

“Gli Altri” – venerdì  9 marzo 2012

 

 

 

Per quanto ci si sforzi di essere cortesi, resta pur sempre una violenza: imprigionare la conversazione con Fausto Bertinotti sulla parola politica nello spazio di un'intervista è missione sfacciata a crudele. Ma non impossibile. Perché tracciato il sentiero, indovinato il “salto di classe” che ha portato la politica a declinare in tecnocrazia, si ottiene uno sguardo sull'oggi lucido e coerente.

 

Bertinotti, si è dice che l'ascesa di Monti a Palazzo Chigi coincida con la fine della politica. Non è un'analisi che pecca di ingenuità?

Ci troviamo in una condizione assai contraddittoria: da un lato siamo sovrastati per memoria, storia e cultura da una dimensione dilatata della politica, che prende l'avvio dal secondo dopoguerra, con l'ingresso delle masse nella politica; dall'altro ci troviamo di fronte alla nullità della “nostra” politica, quella della sinistra. L'abbaglio nasce da qui, dal fatto che la dimensione della memoria è stata cancellata e la politica della sinistra non esiste più. Resi orfani di padre e di madre non siamo in grado di chiamare con il nome politica ciò che oggi si configura come tale, perché ci è stata espropriata.

 

Cos'è stata la politica prima dell'avvento dei tecnocrati?

La storia della politica moderna coincide con l'ingresso delle masse, e in particolare della classe operaia, nella dimensione pubblica. La politica o è espressione diretta di questo fattore o ne è fortemente contaminata. Il potere, che è sempre stato patrimonio esclusivo delle élites, da quel momento viene conteso dalla classi subalterne. Alla fase liberale attraverso cui si sottrae al tiranno il monopolio del potere, si somma il pensiero democratico che innerva in questa sottrazione l'idea dell'uguaglianza. La rivoluzione è l'espressione più avanzata di questa contesa: al monopolio del potere della borghesia la rivoluzione pretende di sostituire il monopolio della classe proletaria in nome dell'uguaglianza.

 

Come e in che modo si è interrotto questo processo di sottrazione?

Questa politica è venuta meno con la crisi della democrazia, che si manifesta in maniera drammatica, e con la scomparsa della sinistra. Ciò ha dato luogo a un fraintendimento: non è che la politica è scomparsa, è cambiato il soggetto protagonista, sono cambiati i suoi detentori. C'è stata cioè una vera e propria controriforma, un salto di classe che ha portato le élites a rimpossessarsi della politica. Da qui l'effetto distorcente che ti fa dire che la politica non c'è quando invece è fortissima. Oggi la politica è quella che esprime la borghesia, e nell'unica forma possibile: l'occupazione dell'organizzazione capitalistica del vuoto lasciato dalla “vecchia” politica. È perfettamente logico che questo spazio sia occupato dalle élites tecnocratiche, dai sacerdoti della nuova ortodossia.

 

Monti è la raffigurazione plastica di questo salto di classe, e forse la sua espressione più compiuta. Ma la controriforma non è iniziata con la Bocconi...

No di certo. Il riflusso comincia negli anni Ottanta, quando si produce la sconfitta dell'ultimo grande tentativo di rivitalizzazione della politica del cambiamento, cioè con la chiusura del ciclo del '68-'69. Fino a quel momento l'operaio comune di serie e lo studente di massa sono le espressioni mature della contesa a cui accennavo prima. In quella fase le élites sono culturalmente sotto scacco. Il rovesciamento si ha quando queste forze perdono, crolla l'Unione Sovietica, comincia la stagione di una riorganizzazione capitalistica che chiameremo globalizzazione. Su quelle sconfitte e sul nuovo terreno si produce l'inversione del paradigma sulla base di due assunti: il valore della disuguaglianza come valore di promozione della nuova civiltà, e la demolizione del conflitto. Prendono corpo le politiche neoliberiste, vincono i governi delle destre. C'è una fase torbida e opaca in cui l'estremo tentativo di riattivare i canali della politica, attraverso il movimento altermondista, ne esce a sua volta sconfitto. Il nuovo ciclo del capitalismo finanziario diventa più feroce ed entra in campo la guerra, perché ha ha bisogno di una politica dura, aspra, per poter esportare quel modello. Ma questa politica fallisce: perde il suo avversario, ma perde anche il partito della guerra, che non ce la fa a imporre il suo ordine.

 

È così che il potere cessa di essere “piramidale”, è così che arrivano i tecnocrati.

Precisamente. Da piramide, la politica si profonde come in una rete riassorbita dalle oligarchie. Il nuovo paradigma diventa allora l'ineluttabilità delle scelte, o la presunta terzietà delle politiche tecnocratiche. Cioè l'esatto opposto dell'idea della rivoluzione. Laddove la politica delle masse è trasformazione, processo, storia, la politica delle oligarchie fissa il potere nello stato d'eccezione e nella sua insindacabilità. E questo stato di eccezione si prolunga in una condizione di permanenza.

 

Monti per sempre?

Considerare Monti una parentesi è un auspicio ma non un'analisi seria. Il governo Monti è secondo me un governo costituente, che tende ad una ulteriore ristrutturazione dei partiti e alla costruzione di una grande area di consenso al governo neo-centrista. Attenzione: non una manovra vecchio stile, raccogliticcia, ma fondativa di un'area di centro che si identifica come area del governo. Se la fase precedente ha visto alienare da parte dei partiti la loro autonomia verso la governabilità, ora la governabilità costruisce i partiti politici. Il partito del governo.

 

Il governismo, malattia senile della politica.

Se pensi che l'alfa e l'omega della tua politica è Palazzo Chigi, è chiaro che hai perso per strada le ragioni della tua esistenza in quanto soggetto autonomo, perché Palazzo Chigi è occupabile da te come da un altro.

 

E i vecchi partiti che fine fanno?

I partiti, in particolare quelli della sinistra, sono ridotti a simulacri. Ma sia chiaro: non è stato Monti a uccidere i partiti. Sono i partiti morti, incapaci di farsi portatori di un'idea diversa dall'ordine costituito, ad aver creato le condizioni per l'avvento di un regime post-democratico. È ormai evidente che tra il capitalismo finanziario globalizzato e la democrazia c'è un'incompatibilità di fondo e la politica può rinascere solo dalla denuncia di questa incompatibilità.

 

La pars destruens è manifesta, la pars costruens invece latita...

Credo che i partiti, come sono oggi, sono irriformabili dall'interno: servirebbe un movimento uguale e contrario a quello di Monti che dia luogo ad una fase costituente di soggetti espunti dal potere tecnocratico.

 

Quali dovrebbero essere i confini di questa costituente?

È possibile identificare in fieri una coalizione di forze, movimenti, soggetti sociali, portatori di conflitto che attorno a una ridefinizione totale dei rapporti tra il lavoro, la vita e i modelli sociali costruisca una costituente della democrazia in grado di alimentare questo grande cambiamento. Naturalmente bisognerebbe coniugare l'impazienza del conflitto da organizzare con la pazienza del passo della ricostruzione del soggetto critico. Penso – per tornare alle scaturigini – ad un grande partito della sinistra, dove per sinistra si intende, su un terreno totalmente nuovo, la “rammemorazione dei vinti”, per citare Benjamin. Bisogna mettere in campo una soggettività diffusa che torni alla politica precisamente da dove era stata cacciata: la contestazione alle élites del monopolio del potere. I principi guida? L'uguaglianza e la libertà della persona. Il tema di oggi è la costruzione di un modello economico e sociale dell'Europa che esce dal campo del dominio del mercato. Siamo capaci di disegnare una nuova società? Senza questa ambizione la politica e la sinistra perdono di senso.

 

Molti dei soggetti a cui fa riferimento, penso alla Fiom, hanno giocato un ruolo di supplenza  rispetto ai partiti. Spesso sono stati messi nell'angolo e costretti a difendersi. Non c'è il rischio di ingaggiare una battaglia di retroguardia?

Ci sono forme di resistenza all'aggressione dei diritti che sono sacrosante. Ma la Fiom non è più un tradizionale sindacato dei metalmeccanici, è anche un pezzo di movimento, un presidio di democrazia. Perché possa mettere in luce la sua vocazione dinamica e costruttiva, anche la Fiom deve liberarsi dei lacci che la imprigionano, evitare di fare come i partiti tradizionali che sono un ingombro, perché tendono a riprodurre la forme della loro anchilosi. Ci vuole un elemento dirompente, per un partito della sinistra in cui ci possano stare tutti.

 

Reputa fuori fuoco il tentativo di riorganizzarsi attorno all'area del Pd?

Nel quotidiano ogni politica di convergenza su una causa giusta è benvenuta. Ma un conto è l'alleanza di scopo, pronta a restituire la politica ai movimenti, altro è l'idea della rinascita della politica alta.

 

Un'ultima domanda: quanto l'antipolitica ha fatto male alla politica?

Una componente antipolitica, connessa a fenomeni populistici, è sempre stata presente. Ma prima la politica si poneva il problema di dover prosciugare queste aree. Ho un'avversione totale a forme di delegittimazione che non riescono a tramutare la collera in indignazione collettiva. Ma penso anche che troppo spesso, per disfarsi della critica, il governo di oggi bolla tutto come antipolitica allo scopo di rendere indiscutibili le proprie scelte. Il potere tecnocratico gioca su questo e se ne avvantaggia: o me o il caos.