Il mare aperto di Francesco

di Fausto Bertinotti

 

Il Sole - 24 Ore - 6 ottobre 2013

 

 

 

Una imprevista presenza profetica ha squarciato l’aria del tempo, un’aria che, specie in Occidente, si è fatta greve e opaca, e ha riguadagnato lo sguardo aperto sul futuro dell’uomo. Dalla Cattedra di quella stessa Chiesa da cui era venuta una delle più organiche avversioni alla modernità, Papa Francesco ne coglie, proprio mentre essa vive una crisi profonda, il nucleo cruciale, la promessa non mantenuta e la fa rivivere nel dialogo con il proprio, rinnovato, progetto di fede. C’è nella testimonianza di Francesco un punto cardinale per il dialogo tra credenti e non credenti. Esso si definisce attraverso un vero e proprio attraversamento di Colonne d’Ercole, attraverso l’ingresso in un altro mare, un mare aperto. Scrive Francesco: “La questione per chi non crede in Dio sta nell’obbedire alla propria coscienza. Il peccato, anche per chi non ha la fede, c’è quando si va contro la coscienza. Ascoltare e obbedire ad essa significa, infatti, decidersi di fronte a ciò che viene percepito come bene o come male. E su questa decisione si gioca la bontà o la malvagità del nostro agire”.

Credo che questo Papa debba molto allo strappo drammatico di Benedetto XVI. L’esperienza di Bergoglio non si sarebbe potuta fondare senza una ‘rupture’, senza il ‘no’ che la precede. Benedetto XVI, con il suo ultimo atto, ne è il protagonista. Nascosta dall’atto straordinario di un Pontefice che dice “mi dimetto”, c’è la confessione della propria umana fragilità, ma proprio da essa riemerge l’innocenza. L’innocente può affermare che il re è nudo. Su questa sottrazione al potere si edifica il pontificato di Bergoglio. Si chiama Francesco come a indicare la via per sottrarsi al potere dell’Istituzione, senza dover confliggere con essa. Ma la discontinuità di Francesco con Benedetto XVI è forte e netta proprio sulla testimonianza nel secolo, sulla grande questione moderna della coscienza individuale e del diritto. Anche Benedetto XVI aveva portato la Chiesa al confronto con il secolo, ma per ben altra strada, quella del rapporto tra fede e ragione. Al Bundestag di Berlino aveva rivendicato che: “Contrariamente ad altre religioni, il cristianesimo non ha mai imposto allo Stato e alla società un diritto rivelato” e che “ha invece rimandato alla natura e alla ragione quali vere fonti del diritto; ha rimandato all’armonia tra ragione oggettiva e soggettiva, un’armonia che però presuppone l’essere ambedue le sfere fondate sulla Ragione creatrice di Dio”. A molti era sembrata un’apertura alla laicità. Ma così invece la ragione restava dipendente dalla luce di Dio, la verità accessibile solo a chi da essa ne è illuminato. Caritas in veritate. Francesco oltrepassa queste colonne. Il suo dire si distacca dal corso teologico che, pur nel rinnovamento, tanto da far uso del prefisso ‘neo’, affonda le sue radici nella Scolastica, la Tradizione. Francesco sembra voler dire che non è più il tempo del rinnovamento nella continuità. I termini della questione vengono rovesciati. E’ nell’amore che vive la ricerca della verità; a nessun essere umano è impedito il bene. La fede, per Francesco, è il sale della terra, ma la terra è diversamente abitata e tutti possono accedere al bene. Si ricomincia dall’esperienza umana. Il passaggio apre la strada alla ricchezza della convivenza. La rottura è limpida. La sua radice si può trovare forse nella Chiesa antica. Del resto, nelle origini lontane dei grandi movimenti, c’è spesso più futuro che nella loro storia recente. Paolo di Tarso, nella lettera ai Romani, aveva scritto: “Quando i pagani, che non hanno la Legge (la Torah), per natura agiscono secondo la Legge, essi, pur non avendo legge, sono legge a se stessi; essi dimostrano che quanto la Legge esige è scritto nei loro cuori come risulta dalla testimonianza della loro coscienza”. Certo il passaggio di oggi è decisivo. Credenti e non credenti possono tornare a camminare insieme, quando le strade siano quelle della liberazione. La portata del messaggio rispetto all’ordine esistente, alla cultura dominante e al senso comune è rivoluzionaria. La fede di Francesco e la coscienza dell’uomo si incontrano nel rifiuto della rassegnazione ai mali del mondo. La rottura di Francesco restituisce alla testimonianza di fede una missione di autonomia e di sfida al presente, al secolo, a questo ordine mondiale. Torna, prorompente il: “Siamo uomini in questo mondo, non di questo mondo”. Enzo Bianchi ha giustamente ricordato la “Camminare insieme” del Cardinale Pellegrino, nella Torino dei primi anni Settanta. Ma quello era il tempo della speranza e questo è il Pontefice. Certo lo spirito del Concilio Vaticano II torna a farsi sentire, dopo una sua progressiva riduzione al silenzio dal corso ultimo della storia e da quella della Chiesa. Ma quella del Papa non è un heri dicebamus. Papa Francesco sembra dare corpo a ciò che Walter Benjamin chiamò ‘il balzo di tigre’. E’ un certo sguardo sul nostro futuro, è la rottura con il tempo presente e con i suoi mali, è la ricerca di una diversa strada nel cammino dell’umanità che fanno rivivere ciò che del Concilio, oltrepassando il suo tempo, illumina ancora la ricerca di futuro; la prossimità, cioè la ricerca della vicinanza con l’altro (gli uomini di buona volontà); la formula giovannea sulla denuncia del più grande peccato dell’umanità, “lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo”; l’orizzonte liberatorio della “Gaudium et spes”. Gli atti di Francesco stupiscono perché rompono con l’immagine che la Chiesa ha voluto dare in questi ultimi secoli della presenza del Pontefice nel mondo, con quel cerimoniale del Sacro di cui il connotato pubblico del Papa era vertice e modello. In un mondo nel quale il virtuale e l’apparire sono diventati i segni dei tempi, il Papa chiede di ricongiungere l’apparire con l’essere, di ritrovare l’autenticità. La prassi di Francesco è parte della sua rivoluzione. Non si deve dimenticare che è un “Papa venuto dalla fine del mondo” e che si è voluto chiamare Francesco. I suoi atti possono essere già interpretati non come un’assenza di teologia, bensì come una teologia della prassi. Si potrebbe dire, facendosi guidare da una celebre formula, che Francesco rimette la fede con la testa in sù e con i piedi per terra; per camminare sui piedi nudi. E’ significativo che un teologo come Leonard Boff non abbia cercato nel Papa alcuna vicinanza con la sua teologia della liberazione e abbia invece letto nella prassi di Francesco la ricerca del divino nell’uomo e della liberazione dell’uomo da ogni forma di oppressione e di alienazione. La povertà si rivela nelle parole del Papa un crocevia decisivo. Una povertà scelta, quella nella Chiesa e della Chiesa, anche per combattere le povertà, tutte le povertà, imposte ai molti dall’accumulo di potere e di denaro nelle mani di pochi. Parole come pietre, parole, quelle del Papa, che non si fermano alla denuncia dei mali, ma risalgono alle loro cause, al potere, alla ricchezza, al denaro. Bastino le parole dell’Angelus dell’8 settembre, nelle quali il no alla guerra si accompagna alla denuncia degli interessi materiali che la generano, dalla produzione e dal traffico di armi, agli approvvigionamenti energetici. Ancor più in generale si ricordino, a riassumerle tutte, le parole di denuncia di questo sistema economico, perché: “Questo sistema economico ha un idolo che si chiama denaro”. Le intollerabili ingiustizie, le distruzioni di umanità del nostro tempo hanno lì la loro storica causa prima. Dal suo rifiuto rinasce il bisogno di camminare insieme.