Enzo Mazzi - Cattolicesimo e costruzione della società civile italiana. A partire da un vissuto

alternative per il socialismo n. 11 ottobre-dicembre 2009

 

 


 

 

Il tema del rapporto fra Cattolicesimo e costruzione della società civile italiana mi sembra di grande attualità. È attuale nei due versanti: quello del potere e quello dei processi vitali o se si vuole nel versante dei vertici istituzionali e in quello della base. Il sistema mediatico è sempre all’ossessiva ricerca di oggetti di consumo per bocche infantili avide di latte. Ora è il momento del cristianesimo come “religione civile”. Tutti ne parlano, quasi fosse una scoperta. Accomodiamoci pure.

Ma non è affatto una invenzione della cosiddetta destra liberale. La “religione civile” è una connotazione del cattolicesimo fin dalle sue origini nel quarto secolo. Cattolico infatti significa letteralmente universale nel senso preciso dell’universalismo imperiale. Non era cattolico il cristianesimo dei primi due secoli. All’inizio non era neppure propriamente una religione. Diventa “religione della società” quando entra in simbiosi con l’universalismo dell’Impero e si trasforma così in religione essa stessa universale, cioè cattolica. La politica di simbiosi iniziata da Costantino fu compiuta come si sa da Teodosio che proclamò nell’editto del 380 la religione cristiana religione dell’Impero: “Vogliamo che tutti i popoli a noi soggetti seguano la religione che l’apostolo Pietro ha insegnato ai Romani … Chi segue questa norma sarà chiamato cristiano cattolico; gli altri invece saranno stolti ed eretici … essi incorreranno nei castighi divini e anche in quelle punizioni che noi riterremo di infliggere loro”.

La scelta dell’universalismo imperiale non fu indolore. Creò una profonda spaccatura interna al cristianesimo. E fu una spaccatura verticale. Gli strati del cristianesimo più lontani dal centro imperiale ed ecclesiale e socialmente più umili, in particolare i contadini poveri della Chiesa africana, insieme a alcuni loro episcopi, percepirono una tale alleanza fra la Chiesa e l’Impero come un tradimento del profetismo evangelico. L’eresia più importante fu il Donatismo.

I donatisti, ma anche altre eresie analoghe, riuscirono a dare profondo contenuto teologico alla loro rivolta sociale e morale. I fatti sono noti ma vale la pena riassumerli perché come dirò sono di un’attualità sconcertante. I proprietari terrieri dell’Africa proconsolare e della Numidia utilizzarono la persecuzione dioclezianea per terrorizzare, torturare, umiliare e reprimere i propri contadini. Mentre alcuni presbiteri e episcopi accettarono la sorte atroce dei contadini, la maggior parte di loro e specialmente i più importanti lasciarono soli i fedeli, abiurarono, si salvarono, e soprattutto mantennero il loro potere, anzi lo ampliarono orientando sempre più la Chiesa verso il compromesso con l’Impero.

Mensurio, vescovo di Cartagine, fu uno dei “traditori”. Quando morì di morte naturale fu eletto al posto di lui il suo collaboratore Ceciliano consacrato dal vescovo Felice, anch’egli però “traditore”. Una parte notevole della Chiesa africana, quella rurale, la più povera e angariata, non ritenne valida una tale consacrazione e al posto di Ceciliano elesse vescovo di Cartagine Donato. Ma così il donatismo scardinava uno dei pilastri della dottrina cattolica: il valore assoluto della successione apostolica in sé, da vescovo a vescovo, senza passare attraverso le relazioni circolari e territoriali della ecclesia. Più a fondo, veniva contestata la organizzazione verticista della Chiesa e il suo universalismo imperiale. La Chiesa dell’amore condiviso, fondata sulle relazioni legate alla vita e al territorio si opponeva alla Chiesa del potere, dell’universalità astratta e della legge senz’anima. Il donatismo animò la Chiesa per tutto il quarto secolo. Subì una durissima repressione e infine su debellato. Perfino la sua memoria fu annullata. Passò agli annali solo come eresia localista, rigorista e intollerante verso le debolezze umane. Non che non avesse limiti, ma la sua teologia fu completamente distorta.

 

L’universalismo imperiale

Finché giunse con i “padri della Chiesa” la definitiva consacrazione dell’universalismo imperiale: un solo Dio un solo impero una sola Chiesa universale.

Basta la citazione di S. Ambrogio vescovo di Milano nel VI sec.: “Tutti gli uomini hanno imparato, vivendo sotto un unico impero universale, a proclamare col linguaggio della fede l’impero dell’Onnipotente”.

È l’epitaffio del donatismo. Questo però divenne quella folata di vento dello Spirito o se si vuole quel fermento che ispirò molte delle grandi spinte di trasformazione della storia del cristianesimo. A ben pensarci soffia anche oggi. Non certo nei modi, ma nella sostanza.

Di fronte a questo sconcertante riproporsi del cristianesimo come “religione civile” di una società strutturalmente violenta, una parte dei cattolici che partecipa al movimento pacifista ha capito e acquisito ormai lo spirito profondo della nonviolenza e quindi avverte il bisogno di superare la dipendenza strutturale, il sistema della alienazione, la sacralità intesa come astrazione, separazione e contrapposizione fra le varie dimensioni della nostra esistenza, proiezione di un’angoscia irrisolta, di una frattura interna, di una mancanza di autonomia e infine di una alienazione della propria soggettività nelle mani del potere. Molti cattolici stanno prendendo coscienza che il dominio del sacro è la chiave di ogni violenza e tendono all’autonomia e alla responsabilità della coscienza (“come se Dio non ci fosse”) alimentata dalla rete delle relazioni, chiave della nonviolenza. E, come i donatisti, non si fermeranno all’autonomia nel campo politico, etico e sociale. Vogliono una Chiesa “altra”.

Sono molto più avanti di tanti laici che credono di aver risolto il problema ignorando i temi religiosi, chiudendoli a chiave nei recessi bui del loro profondo e relegando la religione nella sfera privata di anime da confessionale o da lettino psicanalitico. Salvo poi inginocchiarsi anch’essi davanti ai simboli del potere ecclesiastico. La trasformazione profonda in senso nonviolento di tutte le strutture religiose, nessuna esclusa, simbologie, dogmi, ordinamenti, strutture di potere, è il traguardo che sta loro davanti.

Le comunità di base che da tempo hanno iniziato un tale percorso non sono affatto isolate come si vorrebbe far credere. Ora che “un mondo nuovo possibile” è tornato con i suoi alti e bassi negli orizzonti e nei percorsi delle nuove generazioni, i cattolici inseriti nel movimento della pace sentiranno e già stanno avvertendo il bisogno di non far mancare il contributo della ricerca di “mondi spirituali, religiosi ed ecclesiali nuovi”, strutturalmente nonviolenti.

 

La matrice di una storia nuova

È questa ricerca secondo noi la matrice vitale della storia nuova, radicata nella coscienza profonda delle persone in carne ed ossa, nella loro vita reale, nel profondo dei loro rapporti, nella loro fatica, nel lavoro, nelle mani e nei sogni; matrice non ideologica, non scritta nei libri, non dettata dalle cattedre e dai luoghi del potere; matrice autentica di un vero e proprio processo storico di lunga durata che partendo dalla resistenza si svilupperà durante la guerra fredda in forma un po’ sotterranea e, affrontando una pesante conflittualità con le dirigenze sia di destra che di sinistra, fiorirà nel periodo del “dialogo alla prova” e nella stagione conciliare, s’ingrotterà nel tempo della restaurazione, negli anni di piombo e nel rimbecillimento degli anni Ottanta, fino a riemergere nella grande stagione dei diritti globali e dei nuovi movimenti come unica prospettiva di cambiamento, fino a sfociare nella ricerca attuale di nuove sintesi politiche.

A qualcuno una tale analisi può sembrare una fuga dalla realtà, un delirio di sognatori. È così lontana infatti dalla descrizione del reale che ci è somministrata quotidianamente e insistentemente dal sistema della informazione. Il quale ignora completamente i processi, lascia nell’ombra la trama profonda della storia, per frantumare la realtà in tanti eventi separati fra loro. Non è così che s’insegna la storia nelle scuole di ogni ordine e grado? È una vera e propria strategia della frammentazione messa in atto per impedire alle coscienze di cogliere il frutto dall’albero della conoscenza, di capire e di impossessarsi del senso della storia e della vita. Le ricerche storiche e sociologiche partono quasi tutte dall’alto, dai luoghi del potere, perché gli specialisti non hanno altre risorse che i materiali offerti a piene mani dai “palazzi”. Noi invece abbiamo la “gente comune” che siamo noi stessi e tutti i nostri compagni e compagne, le nostre comunità, i nostri movimenti e possiamo raccontare dal basso la storia, anche quella del rapporto fra cattolicesimo e costruzione della società civile italiana dal dopoguerra.

Se ho ben capito è proprio questo che si chiede a me che non sono uno storico ma semplicemente un uomo della strada, immerso per scelta e per necessità nei processi vitali. O forse ho capito male, si voleva altro, ma in ogni caso ho solo questo da offrire.

 

Un racconto che inizia nel 1948

Il mio racconto inizia dal seminario diocesano fiorentino in cui ho vissuto la vicenda bellica e il trapasso dal fascismo alla democrazia. Uscimmo dal seminario insieme. Era il fatidico 1948. Quattordici giovani: ventitré anni di età, mese più, mese meno. Ero il più giovane per aver iniziato la scuola elementare a cinque anni. Avevamo convissuto per una decina d’anni in un ambiente completamente chiuso, tridentino, sostanzialmente medioevale. Due ore al giorno a passeggio fuori dal portone, in fila per due, rigidamente in tonaca nera, classe per classe. Un mese all’anno a casa, in vacanza. Si fa per dire in vacanza, perché nel paese natale si riproduceva in qualche modo la vita seminariale intorno alla chiesa parrocchiale. Avevamo condiviso tutto: le regole rigide di stampo medioevale, il camerone nell’immenso Seminario minore a Montughi, la separazione notturna in camere singole con lo spioncino per il controllo dall’esterno nello stupendo rinascimentale Seminario Maggiore in San Frediano, e via di questo passo.

La condivisione totalizzante della vita seminariale aveva riguardato anche aspetti di complicità e trasgressione come il fumare di nascosto qualche mitica sigaretta, ascoltare la radio, rigidamente proibita, con “galene” elementari costituite da un circuito minimo, un rilevatore con minerale di galena e una piccola cuffia, rubare con ingegnosi stratagemmi la corrente che di notte veniva tolta dal “prefetto”, così si chiamava il seminarista un po’ più anziano che fungeva da capo classe. C’erano state anche forme più nobili di complicità. Come mettere insieme la merenda che i genitori, chi più chi meno, portavano da casa nelle visite settimanali e che secondo la regola avrebbe dovuto essere consumata in forma assolutamente individuale. Eravamo in tempo di guerra o di immediato dopoguerra, di tessera, di fame nera. All’ora della merenda alcuni avevano di tutto, altri poco, alcuni nulla. C’era chi sbucciava la frutta per mangiare la polpa, com’è normale, e chi, forse i più, raccoglieva e mangiava avidamente le bucce. A un certo punto a qualcuno, nella mia classe, prima teologia, siamo nel 1945, venne in mente di proporre la condivisione di tutto, alla maniera delle prime comunità cristiane che secondo il racconto degli Atti degli apostoli “avevano tutto in comune”. La cosa piacque. Il rettore del Seminario concesse il permesso ad experimentum di far merenda insieme, nella camera del prefetto che, detto tanto per contestualizzare meglio, era mi sembra “i’ Piovanelli”, quel Silvano Piovanelli che diverrà cardinale. Successe quasi un miracolo: una piccola moltiplicazione dei pani. Il cibo bastava e avanzava. Ce n’era anche per qualcuno di altre classi, meno provvisto. Tanto era l’entusiasmo che il Rettore del seminario incominciò a preoccuparsi di un certo spirito un po’ troppo “collettivistico” che stava nascendo. “Di questo passo diverranno tutti comunisti”, avrà pensato. E ordinò l’interruzione dell’esperimento. Ognuno tornò in camera propria, chi con la polpa e la sazietà, chi con le bucce e la fame. Tutti con dentro un senso di frustrazione. Chi addirittura con una certa rabbia, ovviamente repressa. Fra questi il sottoscritto che era fra quanti avevano avuto un ruolo di promotori delle segrete trasgressioni e dei pericolosi collettivismi. La regola aveva vinto: era stata più forte del Vangelo. Una vittoria piccola piccola di una ben lunga storia di conflitto fra la legge e lo spirito.

Per noi pulcini ancora nell’uovo, adolescenti in cerca d’identità, una sconfitta che ci saremmo portati dentro.

 

Quelle pubblicazioni eretiche

Un’altra complicità trasgressiva era consistita nella lettura di pubblicazioni sospette se non considerate eretiche e proibite. Quando, nell’immediato dopoguerra, studiavamo teologia nel Seminario fiorentino, la nostra ansia culturale e intellettuale, la tensione morale e la ricerca di fede erano tutte protese a uscire dalla prigione della sintesi sacrale del medioevo, evitando però l’abbraccio mortifero di una modernità che aveva sì riaperto lo spazio dell’autonomia e della libertà ma, per estrema contraddizione, aveva anche sottomesso il mondo al clima di terrore della guerra totale.

La cupola del tempio, imponente utero materno, non racchiudeva più i cuori e le menti dei giovani seminaristi. Avevamo bisogno di volare alto. Ma la cupola di fuoco della guerra totale si presentava come un approdo altrettanto oppressivo. Fra questi poli, simbolicamente espressi dalle due cupole, nasceva una appassionata ricerca di sintesi nuove, di percorsi creativi, di tentativi inediti. Il Vangelo non poteva essere annunziato in maniera credibile né dal vecchio prete-feudatario né dall’emergente figura del prete-funzionario, del prete-manager.

E scoprimmo l’enorme danno storico che aveva fatto e stava facendo il potere ecclesiastico, da Leone XIII a Pio XII, nel sottrarre le masse cattoliche allo spontaneo fecondo intreccio col movimento operaio e contadino, per affiancarle alla spuria alleanza con la borghesia, seppure col nobile scopo di condizionarla e di mitigarne le ingiustizie. Fu una scoperta appena intuita che solo in seguito, passo dopo passo, a contatto con la vita, alcuni di noi avrebbero maturata.

Negli interminabili pomeriggi di una scuola teologica che chiedeva solo di imparare a memoria dispense e testi vecchi di oltre mezzo secolo, scoprimmo i valori evangelici testimoniati dalla gente del popolo, dai cosiddetti lontani,

dagli scomunicati. Fu una scoperta a tavolino, sulla base di esperienze e letture più o meno proibite o sospette, come gli scritti di don Mazzolari o le pubblicazioni di teologia teorica e pratica che venivano d’Oltralpe, ad esempio dalla Francia dei preti operai e delle “parrocchie missionarie”.

Si traduceva ad esempio con passione il libro di un parroco francese intitolato “Parrocchia, comunità missionaria”. La tesi di fondo del libro e dell’esperienza pastorale ivi descritta era che la classe operaia avrebbe in sé, nei suoi valori umani, la forza di cambiare il mondo ingiusto solo che potesse coniugare tali valori col Vangelo e con la fede cristiana. È in fondo la tesi dell’Umanesimo integrale di Maritain. Invece di dare il Vangelo, dice il libro, la pastorale normale si attarda in messe funebri e divertimenti. E così i poveri, privi della Parola, sono attratti dall’ideologia comunista. La Francia è scristianizzata, è terra di missione. Per il libro è angoscioso constatarlo ma è così. Ridiamo ai poveri la parola, la parola umana inscindibile, se autentica, dalla Parola divina incarnata, e l’ingiustizia non avrà scampo. E nacque in noi il bisogno di immergerci in quel mondo per evangelizzarlo dal didentro e al tempo stesso per esserne evangelizzati.

Queste erano le idee, di cui poi avremmo scoperto le contraddizioni e i limiti, che animavano noi i pulcini quando, rotto il guscio, usciti di Seminario, ci inserimmo nella vita, chi in parrocchia, chi in fabbrica come prete operaio. Non erano gli obiettivi politici che ci interessavano. Stavamo maturando una sana autonomia dalla Democrazia cristiana. e non intendevamo imbarcarci in altri collateralismi di sinistra. Non eravamo attratti nemmeno dalle ideologie. Ci preparavamo a diventare pastori e ci interessava la gente. Volevamo evitare, prima che fosse troppo tardi, il disastro di una irreparabile frattura fra il mondo operaio e contadino e la Chiesa. Il primo, quello che chiamavamo “i poveri”, destinato a isterilirsi e a essere “usato” senza una adeguata coscientizzazione e una alimentazione alla vena del Vangelo; la seconda, cioè la Chiesa, privata dell’apporto vitalizzante dei poveri, destinata a vendere il Vangelo come merce di scambio nel mercato capitalista.

Eravamo ingenui, ma non stupidi; idealisti, ma non privi di quel realismo autentico che è la dote di chi non ha altra scelta che tentare l’inesplorato. Il clima era quello ben descritto da Cesbron nel romanzo I santi vanno all’inferno, che s’ispira alla vita dei preti operai francesi.

Non sapevamo che il mondo operaio e contadino era agli sgoccioli. Ma non eravamo neppure in attesa della sua messianica vittoria. Ci premeva l’affermazione e la penetrazione dei valori umani ed evangelici che intravedevamo nei “poveri”. Quei valori, fra l’altro, che alcuni di noi, quelli provenienti da famiglie proletarie di sinistra, avevano succhiato col latte materno e che poi entrando in seminario avevano abbandonato non senza un senso di rottura e quasi di tradimento. Ora si trattava di immergersi di nuovo in quella realtà dalla quale si proveniva.

 

Ossessionati dal senso di colpa

Tutti però eravamo ossessionati dal senso di colpa. Nel fondo, forse nell’inconscio, restava l’intento di salvare il mondo dal dominio del peccato. L’angoscia del peccato e la paura della privazione di Dio, temporale e soprattutto eterna, alimentavano una obbedienza assoluta verso il potere ecclesiastico, che noi stessi del resto incarnavamo nei confronti dei fedeli. Al confessore affidavamo anche quotidianamente il nostro peccato. Egli era la nostra ancora di salvezza “definitiva”. Oltre di lui l’angoscia. Eravamo preparati a disubbidire e a educare alla disobbedienza verso il potere civile ingiusto; ma non verso il potere ecclesiastico ingiusto. Questo aveva le chiavi della nostra salvezza eterna. Alcuni di noi, ad esempio don Lorenzo Milani che ho avuto compagno di banco, non si libereranno mai totalmente da tale distruttiva angoscia del peccato e del perdono. Forse lì sta anche il segreto della conversione al cattolicesimo di Lorenzo, figlio di una delle famiglie più eminenti dell’alta borghesia fiorentina, agnostica, di origine ebraica. Il rapporto diretto col biblico Dio, sconfinato amore ma anche infinita giustizia, onnipotente, onnipresente e onniveggente, è capace di procurare un’angoscia insostenibile: “chi vede Dio muore” dice la Bibbia. La mediazione della Chiesa che può dare il perdono e lavare il peccato, attenua l’angoscia e rende più accessibile il confronto con Dio. Si può protestare anche duramente contro i singoli detentori del potere ecclesiastico ma alla fine, davanti al potere che detiene le chiavi del perdono e della salvezza totale ed eterna, non si può fare a meno di piegare il capo. «Se perdo il legame con la Chiesa, chi mi salverà dal peccato e dalla dannazione?», disse una volta che discutevamo di appartenenza e di obbedienza. Riferisco l’esperienza di don Lorenzo perché mi sembra emblematica.

Altri di noi impararono dalla gente e con la gente a guardare con più serenità al giusto senso del peccato e del perdono e soprattutto a sganciarlo dalla mediazione esclusiva del potere ecclesiastico. Per me fu liberante l’esperienza comunitaria.

Ci trovammo immersi in un crogiolo che andava ben oltre la nostra immaginazione e i nostri progetti. Il boom della industrializzazione, l’inurbamento e lo sviluppo dei media avevano rotto i compartimenti stagno e creato le premesse per un generale rimescolamento delle carte. Non va dimenticato che la genesi dei preti operai si ha nei lager nazisti dove alcuni preti francesi incontrano per la prima volta su un piano di parità e di condivisione di vita gli operai comunisti, sovversivi, mangiapreti. Sono i paradossi della storia: la crocifissione della guerra trasformata in germe di vita!

 

Le trasformazioni del dopoguerra

Il mondo stava avviandosi verso una nuova inedita unificazione. Si preparava la metafora di uno di quei magici tempi della evoluzione della specie in cui nasce un essere nuovo. La posta in gioco era molto alta perché quel crogiolo aveva due possibili sbocchi, corrispondenti ai due poli della realtà in movimento. Uno sbocco, che ritenevamo senza ombra di dubbio drammaticamente distruttivo, era quello del consolidamento della unificazione del mondo sotto il dominio della borghesia, nel segno del prepotere della tecnica, del danaro, della competizione di tutti contro tutti, della violenza, del terrore; l’altro sbocco, che giudicavamo positivo e per il quale ci dovevamo impegnare, era l’unificazione del mondo nel segno dei poveri, non come autarchia delle classi popolari, ma come intreccio e incarnazione delle migliori energie umane, culturali e religiose, nel mondo dei poveri: “i santi che vanno all’inferno”, appunto.

Ci accorgemmo ben presto, già alle prime esperienze di pratica pastorale, che non si trattava solo di una questione di preti, di Chiesa o di Vangelo. La società intera era investita da una trasformazione profonda e ambigua. Proprio per questo però l’opportunità che si apriva per il Vangelo e per la Chiesa era di incalcolabile valore. Bisognava scommettere la vita intera e la stessa fede.

Ed è quello che tentammo di fare, giovanissimi preti, chi in fabbrica, chi nelle parrocchie, perseguendo esperienze che insieme a tante altre analoghe avrebbero preparato e alimentato la rivoluzione copernicana del Concilio e la rivoluzione culturale e sociale del ’68.

Non ho detto tutto. L’epilogo dell’uscita dal seminario che ho descritta sopra con una certa enfasi con la frase: “Queste erano le idee che animavano noi i pulcini quando, rotto il guscio, usciti di Seminario, ci inserimmo nella vita, chi in parrocchia, chi in fabbrica come prete operaio”, riguardava in realtà una piccola minoranza. Ho detto “noi” ma avrei dovuto dire “alcuni di noi” perché, come cercherò di spiegare, ho scoperto con rammarico e delusione che solo pochi pulcini, per quanto mi sembra di aver capito, ruppero davvero il guscio dell’uovo. Molti ne restarono avvolti. Per uscire dalla metafora, molti dalla realtà rigida e costrittiva del seminario passarono all’ambiente chiuso e omologante della casta sacerdotale e clericale. E avvenne che i quattordici seminaristi della classe 1926, una volta usciti dal seminario dopo aver vissuto insieme dodici anni nella più intensa intimità, non si videro e non si sentirono più fra loro neanche per un saluto, neppure per domandarsi “come stai”. Fui ordinato prete qualche mese dopo gli altri perché raggiunsi più tardi i ventidue anni e sei mesi di età richiesti per esser fatto prete. Una volta fuori, cercai i miei compagni con gli scarsi mezzi di comunicazione allora esistenti. Niente. Come ingoiati dal nulla. Mi rivolsi a un vecchio prete, confessore in seminario della maggior parte di noi: «Dove sono finiti tutti i miei compagni, ché son mesi che ci siamo separati e non riesco a trovarne uno?». «Caro mio, sono tutti presi, ognuno è alla ricerca dei propri obiettivi: carriera, affermazione, identità, raggiungere un buon posto, s’intende a fin di bene. Vogliono esser parroci nella condizione migliore. Perché tu cosa ti aspettavi?» - mi rispose con aria di chi dice cose scontate, quasi meravigliato dalla mia ingenuità.

I propri obiettivi? La carriera? L’affermazione di sé? Raggiungere un buon posto a fin di bene? Ma erano questi gli ideali per cui ci eravamo fatti preti? E il Vangelo? La risposta mi aveva scioccato profondamente. Intendiamoci, altri segnali, piccoli indizi mi avevamo già in qualche modo preparato.

Questa rottura totale di una relazione comunitaria profonda, durata anni, per obiettivi individuali fu come la goccia di un traboccamento. «Non voglio esser parroco, se questa è la strada», mi dissi. Avevo preso consapevolezza che il ruolo, sacro quanto si vuole, chiedeva il sacrificio degli ideali; che gli obiettivi, fossero pure la salvezza del mondo, aprivano la strada della competizione; che il parroco era una specie di feudatario, magari un valvassino, la cui identità si misurava con l’importanza del feudo da lui occupato; che per guadagnarsi il feudo migliore possibile bisognava obbedire “tamquam cadavere”, come un cadavere. Non ci cercavamo perché inconsapevolmente eravamo diventati fra noi avversari nella corsa all’affermazione di sé e al feudo migliore. Può sembrare eccessivo quello che dico. Specialmente oggi, nell’era della competizione globale, dove il competere per emergere è una legge di sopravvivenza. Noi però allora eravamo ancora all’interno di una cultura intrisa di medioevo e l’accostamento al feudalesimo non è affatto eccessivo.

Questo comunque è quello che constatai, fatte salve le intenzioni che certamente erano in tutti ottime.

 

Destinazione Isolotto

Le cose forse erano ancora più complicate. Già l’aver puntato a diventare prete, a divenire un essere sacro, consacrato, separato in funzione della salvezza del mondo, nascondeva un tranello. E ancor più a fondo, nelle regioni nascoste e inesplorate della mia anima si nascondevano forse radici del bisogno di emergere. Ma questo l’ho scoperto dopo. E forse solo in piccola parte. Allora mi fermai a quella presa di coscienza. E mi misi alla ricerca. Cosa cercavo? Un distacco dall’obiettivo “parrocchia/feudo”.

Mentre facevo le prime esperienze di parrocchia a Ricorboli e poi altrove, andai a Bergamo dove c’era una congregazione che raccoglieva preti disposti ad essere inviati in missione dove nessuno voleva andare, in forma provvisoria, precaria, quasi itinerante. Forse, chissà, un domani, anch’io… Andai a Bindua in Sardegna, nell’Iglesiente, a conoscere la fraternità dei “Piccoli fratelli” che viveva la vita dei minatori senz’altro obiettivo che quello di essere “come loro”. Forse, chissà, un domani… Andai a Fossoli, per incontrare l’esperienza di Nomadelfia inserita nel dismesso campo di concentramento nazista e parlai a lungo con don Zeno Saltini, il fondatore. Forse, chissà, un domani… E a Firenze guadavo con interesse e intrecciavo rapporti con l’Opera della Madonnina del Grappa fondata da don Giulio Facibeni. Tutte esperienze per così dire alternative.

Finalmente mi decisi. Una mattina mi recai dall’Arcivescovo, dal cardinale Elia Dalla Costa. «Desidero fare il missionario in una di queste realtà», gli dissi. E gli elencai le virtù delle esperienze che avevo visitato. ««Sì, il missionario lo farai - mi rispose deciso quasi avesse già prevista la mia richiesta - ma qui in diocesi, all’Isolotto; nessuno mi ci vuole andare; è un quartiere nuovo, pieno d’immigrati, non ci sono ancora strade, non c’è chiesa, non avrai la casa canonica, dovrai arrangiarti». Mi prese alla sprovvista. «Ci devo pensare», gli risposi. «Ripensaci pure e torna domani, ma a dirmi di sì», fu la sua ultima parola.

Tornai il giorno dopo col sacco a pelo e una tendina da campeggio. Il mio sogno e bisogno di distacco e di svuotamento per il momento aveva avuto la meglio. Ma non definitivamente. Il nuovo insediamento, una specie di città nella città, fu eretto ben presto a parrocchia. Accettai di divenirne parroco senza smetter di sognare. Tenni sempre a portata di mano sacco a pelo e tendina. Precarietà, provvisorietà, senso della finitezza e del distacco, affidamento al divenire responsabile ma senza troppo calcolo. Creatività e valorizzazione delle relazioni furono i valori sulla base dei quali molti sguardi si incrociarono, molte mani si strinsero e molte vite si intrecciarono. Giunsero anche altri due preti: uno di loro divenne parroco di un vicino insediamento di case minime per sfrattati, l’altro fece l’esperienza di fabbrica. Ci trovammo in tanti senza essersi cercati, ciascuno e ciascuna col proprio sacco a pelo e tendina. In senso metaforico, sì ma non tanto. Citarli tutti e tutte per nome è impossibile. Ci chiamammo “comunità”. Ma intendevamo una cosa aperta non un cerchio chiuso.

Furono anni intensi. Cercavamo la precarietà e trovavamo la continuità. Puntavamo al provvisorio e ciò che realizzavamo durava. Lucignoli perennemente fumiganti eravamo eppure non sopraffatti dal buio. Camminavamo sempre sul filo del rasoio, fra essere e non essere, in sentieri stretti, spesso aprendo cammini nuovi senza curarsi dell’approdo eppure nuovi orizzonti si aprivano sempre pieni di luce. E ci trovammo insieme in pieno ’68.

Fu allora che ritirai fuori sacco a pelo e tendina da campo, quando nel 1968 fui rimosso dall’ufficio di parroco. Dopo che il papa Paolo VI mi aveva scritto una lettera autografa invitandomi all’ubbidienza, mi recai immediatamente dal vescovo Florit. «Sono qui per invito del papa, mi dica lei cosa devo fare e lo farò», gli dissi. «Devi allontanarti dall’Isolotto per un periodo di meditazione, poi ti darò un ufficio in duomo», mi rispose. «E la gente?», domandai

ansioso. «Affidala a me, ne avrò cura io stesso».

Lasciai la curia e mi presentai a un’assemblea nella chiesa dell’Isolotto, affollatissima da migliaia di persone come sempre in quel tempo, e dissi loro che li lasciavo. «Ci ritroveremo per le strade del mondo», furono le ultime mie parole da parroco rotte da un irrefrenabile singhiozzo. Così ripresi il sacco a pelo e la tendina e andai a stare provvisoriamente in una pensione, La Residenza, in via Tornabuoni. Lì ebbi fra l’altro la gradita visita di padre Ernesto Balducci insieme al teologo spagnolo padre Gonzalez Ruiz, il quale dopo la visita andò, da solo, a partecipare all’assemblea nella chiesa dell’Isolotto.

Durante la mia assenza avvennero lì all’Isolotto i fatti più drammatici. Mi rimprovero ancora di essere stato lontano dalla gente nel momento cruciale della vicenda, per un senso di obbedienza priva di umanità. Il vescovo, ai primi di gennaio 1969, mandò a celebrare un prete di curia accompagnato da una trentina di noti fascisti picchiatori, armati di catene e bastoni, una delle prime squadre neo-fasciste che si preparavano alla strategia della tensione.

Celebrò due volte in una domenica solo per loro. Migliaia di persone erano uscite di chiesa e andate in piazza.

La chiesa dell’Isolotto occupata dai fascisti fu una provocazione durissima e inaccettabile. La gente, molto responsabile e sostenuta anche da preti accorsi da molte parti della diocesi e d’Italia, decise di non abbandonare più la chiesa la domenica successiva. Ne scaturì la denuncia alla magistratura da parte del prete curiale incaricato di celebrare e quindi l’incriminazione di tre laici dell’Isolotto e di ben cinque preti, due dei quali fiorentini e gli altri tre di varie parti d’Italia. Non ero fra gli incriminati perché non ero presente ai fatti. Partì l’autodenuncia della gente. In un migliaio firmarono e furono anch’essi incriminati.

 

Una storia simile ad altre

Ripresi di nuovo il mio sacco a pelo e la tendina e tornai fra la gente dell’Isolotto. «Sono tornato per firmare l’autodenuncia: non ero con voi ma sono responsabile come voi». Non piansi ma capii che a quel punto dall’Isolotto non mi sarei più mosso. Restavo non più come parroco ma come uomo libero dai vincoli del sacro. Invece che interrompersi i rapporti interpersonali si intensificarono. Nacque l’avventura della piazza, l’eucarestia fuori dal tempio.

Come “insieme” tutto mi era accaduto prima di quel ritorno, così “insieme” tutto mi accadrà dopo, in una rete di relazioni, niente affatto idilliache ma difficili e complesse, il cui scopo principale, non certo raggiunto, forse appena intravisto, è stato ed è lo svuotarsi di tutto come pienezza dell’identità anche individuale, il cercare di vivere accettando il vuoto dell’essere e la finitezza dell’esistenza, il puntare, pur con tutte le contraddizioni, alla liberazione dalle sicurezze, recinzioni, blindature, abbracci delle appartenenze più o meno potenti, affidamenti ai miti d’immortalità e di eterne salvezze.

Ho raccontato una storia particolare, minuta, forse insignificante. Ma utile nel suo carattere emblematico e moltiplicabile in mille e mille altre storie simili per capire dal didentro rapporto fra Cattolicesimo e costruzione della società civile italiana nel trapasso epocale del dopoguerra.

“Meglio morti che rossi” non è solo lo slogan dell’anticomunismo maccartista, ma è l’espressione dell’integralismo liberista che ha tentato di dominare la cultura politica dell’occidente dopo la guerra. In questo mezzo secolo non ci sono state guerre totali; ma tante “guerre di bassa intensità”, così sono state chiamate da chi ha inventato questa strategia, combattute in varie forme nelle diverse parti del mondo, adattate alle situazioni e alle esigenze locali.

Nel Terzo mondo si è trattato per lo più di colpi di Stato militari che hanno instaurato o consolidato dittature sanguinarie. Da noi si è usata la strategia della repressione istituzionale, del golpismo e della strage. In tutti i casi si è sparso sangue, tanto sangue, si è seminata paura, si è generata sofferenza e tutto a fin di bene: per la stessa sopravvivenza della specie.

«La Commissione stragi deve avere il coraggio di dire agli italiani in forma ufficiale che le cose sono andate così: eravamo un paese dove si è combattuta per molti anni una guerra, a bassa intensità. Ma una guerra c’era». Lo ha detto Giovanni Pellegrino, presidente della Commissione stragi, in margine a un Convegno sulla giustizia a Bologna, in una dichiarazione riportata da il manifesto il 18 maggio 1997, all’indomani delle rivelazioni sulla Gladio civile e sul coinvolgimento della stessa nelle stragi. Ed ha aggiunto: «Se nel dopoguerra e ancora negli anni Cinquanta erano cose che potevano ritenersi giustificate, è stato grave che queste strutture che ormai avevano acquistato una loro autonomia, si siano impegnate perché l’Italia non diventasse una democrazia esigente, come disse Moro. Moro muore anche per questo (...). E invece queste forze sotterranee non volevano che la distensione ci fosse: né quella interna, né quella internazionale».

Il golpismo stragista italiano e il golpismo militare sanguinario latinoamericano sono parte di un’unica strategia: creare in tutto il mondo le migliori condizioni per l’affermazione del liberismo mercantile. È addirittura il Segretario di Stato Usa, Henry Kissinger, che nel 1974 afferma l’unicità fondamentale della strategia che sta dietro a interventi e operazioni diverse. Difendendo l’operato eversivo della Cia in Cile afferma davanti a una Commissione parlamentare del suo Paese: «Voi ci rimproverate l’operato della Cia in Cile.

Ma non ci rimproverereste più duramente se non facessimo nulla per impedire l’arrivo dei comunisti al potere in Italia o in altri paesi dell’occidente europeo» (l’Unità, 28 settembre, 1974). Cile e Italia: diverse condizioni, tattiche differenziate ma unica la strategia.

 

Le variabili dipendenti

Vita, libertà e mercato s’identificano nella cultura liberista. La cultura della solidarietà e dei diritti sociali come diritti umani universali inalienabili in quanto ostacola il libero svilupparsi del mercato è un gravissimo attentato alla vita e alla libertà. La centralità del lavoro è una bestemmia e lo Stato sociale è la cura pietosa che può incancrenire la piaga. Non che tutte queste cose sociali siano da scartare in assoluto. L’importante è che vengano considerate per quello che sono realmente: variabili dipendenti. Solo l’interesse privato, mediato dal mercato, ha in sé la capacità di condurre l’umanità verso un progressivo allargamento dell’onda della ricchezza, fino a raggiungere tutti gli uomini e debellare infine la povertà. Tutto il resto è aleatorio e affidato al giudizio di opportunità del luogo e del momento. È talmente decisiva l’affermazione del libero mercato a livello planetario che tutti i mezzi sono leciti per il nobile scopo.

È con tali premesse culturali e quasi religiose che in questa seconda metà del secolo si combatte con ogni mezzo la crociata contro il comunismo avendo però come obiettivo finale la eliminazione della centralità del lavoro, della

solidarietà, dei diritti sociali e l’emarginazione se non la repressione dei movimenti di società che a questi valori si alimentano e per questi principi si battono.

Compresi si noti bene i movimenti di base presenti nella Chiesa cattolica e nelle altre confessioni o religioni. Troppo spesso questo aspetto è dimenticato.

La Chiesa dei poveri, la Chiesa delle comunità di base e della teologia della liberazione, la Chiesa di ispirazione conciliare, la Chiesa del dialogo deve essere repressa, in America Latina, come nelle Filippine, come nel Nord del mondo.

A cominciare dalla Francia dei preti operai e del cardinale Schuard, dall’Olanda della teologia politica e del cardinale Suenens, dall’Italia dei don Mazzolari, Dossetti, La Pira..., dei cardinali Dalla Costa e Lercaro... Va fermata anch’essa con ogni mezzo: finché è possibile con gli strumenti del Diritto Canonico, ma se non basta ci vuole il braccio secolare. Viene perciò finanziata, sostenuta e potenziata la parte di Chiesa conservatrice, assistenzialista, autoritaria, spiritualista, anticomunista, per aiutarla a emarginare e reprimere al suo interno le esperienze conciliari. Ma ove, come nel Terzo Mondo, non sia sufficiente la repressione intraecclesiale, la strategia repressiva dovrà usare mezzi violenti come i massacri di preti, vescovi, leader laici di comunità di base.

È così che anche nella Chiesa il conflitto fu inevitabile. E risultò tremendo e tragico. Perché la gestazione della speranza si configurava come vera e propria rivoluzione del sistema ecclesiastico del sacro travasato dal medioevo

nell’età moderna. Era stato il Concilio che aveva dato voce e forza a tale rivoluzione.

I documenti conciliari infatti avevano sancito un germe di trasformazione radicale definito da un grande teologo conciliare, Marie-Dominique Chenu, come “Rivoluzione copernicana della Chiesa” in quanto poneva al centro non più la gerarchia ma il “Popolo di Dio”.

 

Il germe del Concilio

Lì, in quel germe appena enunciato, si può individuare il succo stesso del Concilio.

Non che i ministeri scomparissero. Solo che riacquistavano la loro funzione di servizio in una Chiesa vissuta come “comunità di comunità in cammino”, fondata sul protagonismo, la dignità e i diritti delle persone e della loro fede, a cominciare dagli ultimi. Quando tale “rivoluzione copernicana” dall’enunciazione di principio nei documenti ufficiali fu trasferita nella pratica di vita ecclesiale dal proliferare di una quantità di esperienze di base, fece paura e fu osteggiata da un intreccio perverso, composto da massoneria piduista, servizi segreti, Gladio, neofascismo, mafia: quel medesimo intreccio che in Italia tentò di bloccare il processo democratico complessivo, ricorrendo a tutti i mezzi compreso il terrore. Non sembri un’esagerazione. Quello che ho chiamato “intreccio perverso” esisteva realmente.

È illuminante la valutazione dei giudici istruttori della strage di Bologna, Vito Zincani e Sergio Castaldo, contenuta nella sentenza-ordinanza dell’1 giugno 1986: “Si può legittimamente trarre la conclusione che si era costituito in Italia un potere invisibile il quale, essendo collegato al tempo stesso alla criminalità organizzata e al terrorismo, ad ambienti politico-militari, a settori dei servizi segreti, alla massoneria, e muovendosi contemporaneamente su questi piani, ha potuto conseguire una capacità di controllo incredibile sui meccanismi istituzionali fino a divenire un vero e proprio Stato nello Stato”.

La genesi delle altre centinaia di comunità cristiane di base italiane trova costantemente sul suo cammino positivo e creativo la repressione intraecclesiale e insieme il macigno dell’intreccio perverso di cui abbiamo parlato sopra. Il quale usò come manovalanza le squadre neofasciste al nord e la mafia al sud per attuare azioni e provocazioni violente analoghe a quelle avvenute nella chiesa dell’Isolotto.

Successe anche nella Chiesa ciò che avveniva nell’insieme della società. Ovunque in Occidente e specialmente in America Latina si usò la violenza stragista fino a rasentare in qualche paese il genocidio, per bloccare il movimento di crescita complessiva della società, culturale, religiosa e politica. A dir queste cose sembra di rimasticare romanzi dell’orrido. In realtà una tale valutazione storica che a noi sembra inequivocabile è completamente ignorata dalla storiografia dominante. Non bisogna quindi stancarsi di riproporla.

 

L’umanesimo di Balducci

Ho raccontato una storia particolare, minuta, forse insignificante. O forse emblematica di un processo storico vitale, tutt’ora in atto nonostante le apparenze contrarie: la nascita di un nuovo umanesimo per il convergere di tante culture. Ci credeva Ernesto Balducci, che nel suo libro L’uomo planetario (1990) lo definisce con il seguente commento: “Si tratta del capovolgimento puro e semplice dell’umanesimo di cui siamo figli... sulla soglia dell’età planetaria il soggetto umano è chiamato a dilatare se stesso soprattutto attraverso i sentieri della memoria... ponendosi a servizio della vita, l’uomo si fa più vero... e trova il senso primo di sé nel trascendere se stesso per mettersi a servizio dell’umanità come specie e della specie come umanità... Il nuovo umanesimo nasce proprio dalla necessità di questa transizione”. Questo nuovo umanesimo, che definirei come “sociale” (mettendo nel conto che ogni appellativo è equivoco), non s’identifica con nessuna ideologia e non è esaurito da alcun programma politico né etica religiosa. Sebbene certi programmi politici ed etiche religiose si ispirino a tale umanesimo e tentino di dargli gambe. È un processo storico in atto che si è sviluppato lungo tutto il secolo e in particolare dalla fine della guerra. Varie generazioni vi hanno contribuito e vi stanno contribuendo con le loro esperienze di vita e con le loro lotte.

Da tale processo sgorga una identità sociale tenuta insieme da una memoria unitaria. Il termine “memoria unitaria” non deve far pensare a un monolite, quasi a un libro di testo della memoria. Significa piuttosto un insieme immane di frammenti di memoria che si riconoscono tutti in un grande orientamento di umanizzazione sociale. Le mille e mille memorie particolari non sono separate e disgregate ma formano una identità: l’identità appunto dell’umanesimo sociale. Ogni più piccolo frammento di memoria, in questa visione unitaria, ha un suo valore, sia che appartenga a un personaggio famoso o a un movimento di grande portata, quale ad esempio il movimento operaio, sia alla persona meno nota. E ogni frammento deve essere accuratamente preservato senza gerarchie d’importanza.

Questa memoria unitaria dell’umanesimo sociale è forse proprio l’ultimo baluardo rimasto in piedi a contrastare la marcia trionfale del liberismo mercantile globale. Il quale infatti ha messo in piedi una strategia di oblio, tesa a disgregare e annullare la memoria. Perché il liberismo ha bisogno di creare sul vuoto una nuova umanità di produttori-consumatori senza identità, consapevolezza e memoria.

Ogni frammento deve riconoscersi come tale perché nessuno possiede la memoria complessiva. E riconoscendosi come frammento può intrecciarsi con gli altri e al contempo sentirsi valorizzato. Ognuno deve fare la sua parte in questa creazione e vivificazione della memoria.

Il processo di umanizzazione sociale ha coinvolto anche le religioni, inclusa la Chiesa cattolica. E come poteva essere diversamente se si pensa alla centralità che ha la socialità nel Vangelo? È vero che il Vangelo non è un manifesto di rivoluzione sociale. È molto di più: è il Dio biblico che s’immedesima con il povero, non per assisterlo ma per rivelarne il protagonismo nella storia, il Dio che si spoglia della sua onnipotenza per assumere la condizione della vittima delle ingiustizie, il condannato a morte a causa delle sue scelte contro il potere e il peccato, come protagonista di una nuova umanità liberata dal dominio.

La strategia della disarticolazione della memoria, della amnistia e dell’oblio è sconfitta quotidianamente dai sogni e dalle fantasie creative. Finora si è fatto storia e teologia partendo dal “realizzato”; Ernesto Balducci direbbe dall’“edito”.

Ora si tratta di fare storia e teologia partendo dall’ascolto dei silenzi, dei grandi silenzi dei popoli, delle classi e delle comunità negate, e dai sogni creativi.

Lo sostiene uno dei più popolari e noti teologi asiatici, Tissa Balasuriya, il teologo dello Sri Lanca recentemente scomunicato dal Vaticano, il quale propone di riorientare la teologia verso la stella polare della vita concreta, della esperienza pratica e della speranza di chi vive in contesti di conflittualità e subisce la violenza culturale e socio-economica.

“È proprio della teologia la possibilità di leggere la storia dal rovescio della trama - scrive la teologa Antonietta Potente nel libro Raccogliere i frammenti, pubblicato da Anterem, Roma 1995 – recuperando ciò che altri ignorano e disprezzano...

In questa economia i contesti divengono preziosi, ed è proprio del mistero di Dio illuminare e portare alla luce i cammini nascosti dell’umanità...”.

A queste profondità dell’anima si trova un problema perennemente insoluto. Lo esprime con la consueta sensibilità Giovanni Franzoni nella prefazione alla pubblicazione Radici e Speranze della Comunità di base del Cassano di Napoli: “La gente sogna nel Kivu come a Timor, in Algeria come tra i palestinesi, in Bosnia o in Afghanistan, di sedersi intorno a un desco per mangiare con la famiglia o con gli ospiti... Questo sogno resta però interno ad un incubo che di nuovo risuoni la temuta parola: alzarsi...Allora, qual è il sogno vero: il dolce sogno della comunità o l’incubo del partire senza sapere dove andare? Si insinua talvolta il dubbio, nella nostra mente, che l’orrore sia la realtà e che la pace sia una breve sosta”.

Il dubbio è angoscioso. Non ci sono risposte e quelle che vengono agitate per assolute sono tutte consolatorie. Non resta che la scommessa gratuita. Chi vuole può chiamarla fede. Anzi questa sola ritengo che possa definirsi propriamente fede. Resta la scommessa gratuita nella universalità reale del sogno, una scommessa da portare avanti tenendosi per mano. È questo mi pare il senso della conclusione della prefazione di Franzoni che riferisce una frase pronunciata da Pietro Ingrao in un intervento a un Convegno delle Comunità di base italiane sulla laicità svoltosi a Firenze nel 1985: «Non so se saremo sconfitti o se vinceremo. So solo che in qualunque caso sarò con voi».