Aldo Tortorella - Vent’anni dopo l’89, la sinistra senza sinistra

alternative per il socialismo n. 12 gennaio-marzo 2010

 

 


 

 

Venti anni dopo l’89, come tutti sanno, il mondo è radicalmente cambiato. Da questa constatazione di buon senso, però, c’è il rischio che nasca una nuova retorica che porta all’impotenza. L’elenco dei temi planetari del mondo globalizzato viene rappresentato in modo talmente schiacciante da ridurre a zero ogni possibilità di intervento sul reale e persino della sua comprensione.

I misteri del mercato unico dei capitali e delle merci, le incognite del nuovo protagonismo della Cina, dell’India, di popoli e Stati sino a ieri subalterni, il proseguire della rivoluzione tecnologica, le difficoltà di affrontare le conseguenze di uno sviluppo dissennato che compromette l’ambiente in cui viviamo, gli interrogativi sulla crisi economica che crea altri milioni di disoccupati nei Paesi più ricchi e aggrava la miseria dei più poveri: tutto questo evoca questioni di dimensioni e qualità poco note o sconosciute del tutto ad una politica vissuta fino a poco tempo fa solo nella dimensione nazionale.

Ma se ciò chiede nuove riflessioni, nuove categorie interpretative, nuova immaginazione politica, non deve nascondere ciò che permane. Per opera delle lobbies assicurative gli Stati Uniti sono scossi da un non sconvolgente tentativo di riforma sanitaria. L’economia deve fronteggiare difficoltà enormi non solo per una finanza irresponsabile ma perché la quota del reddito spettante al lavoro è diminuita rispetto ai profitti e alle rendite determinando una domanda insufficiente rispetto al volume della produzione. La classe operaia, data per scomparsa, si è dilatata a dismisura nel mondo e lo sfruttamento anche. Se lo sviluppo riprende oggi com’era le catastrofi naturali si moltiplicheranno.

Tutto questo si può capire e dimostra che ci sarebbe bisogno, per dirla in breve e con una espressione tradizionale, di più “sinistra”, posto che con questa parola si voglia indicare una tendenza alla trasformazione sociale e cioè al bene comune prima che al tornaconto dei potenti, al diritto di tutti ad una vita degna, alla salute, all’istruzione, all’elevamento della condizione degli ultimi - gli assetati e gli affamati della terra - senza trascurare i penultimi - le lavoratrici e i lavoratori che una vita decente l’hanno conquistata ma rischiano sempre di regredire.

L’evocazione dell’enormità dei temi che ci sovrastano e che non sappiamo come maneggiare non deve diventare un alibi per celare a noi stessi quel che già sappiamo e che implica una nostra responsabilità. Guardare in casa propria non è sempre piacevole, ma è necessario. E cercare di vedere quel che è successo e quanta è la responsabilità di ciascuno di noi - tanto maggiore, quanto più ha avuto - è doveroso. Ed è, lo spero, utile a voltare pagina rispetto a polemiche su cui ancora oggi si indugia.

 

Sinistra senza sinistra

Se si assume che vi sarebbe bisogno di nutrirsi con un poco più di “sinistra”, va constatato che in Italia siamo all’anoressia. Il nome stesso è scomparso dalle aule parlamentari: gli uni lo hanno cancellato dalla propria denominazione di partito, gli altri si sono cancellati. Al di là del nome sono stati sommersi gli elementi portanti di una cultura. So bene che, per una parte della politologia, la destra e la sinistra sono categorie obsolete, sia per la ristrettezza dei margini per politiche realmente diverse sia per la omologazione dei valori nella società dei consumi globalizzata. È una tesi che, con fini opposti, viene avanzata da destra e da sinistra.

Ma a me pare che questa tesi contrasti con la realtà: non è difficile vedere - per esempio nel caso italiano - che la destra è avanzata e viene avanti affermando valori propri, contrastati con altri valori diversi o opposti sul terreno dei diritti umani e civili, della distribuzione della ricchezza, delle relazioni internazionali, della formazione e della informazione, dell’etica pubblica e via dicendo. Altra cosa è il fatto che la rivendicazione dei valori che si suppongono di sinistra siano difesi debolmente o per nulla dalle forze che si dichiarano di sinistra: ciò non significa che idealità e posizioni politiche diverse e opposte a quelle della destra non siano pensabili e praticabili. L’attuale vicenda della sinistra e delle sinistre è proprio questo: uno smarrimento, una rinuncia, una perdita.

Un anno fa le edizioni Feltrinelli hanno pubblicato un denso e corposo volume collettaneo: Sinistra senza sinistra. Non si tratta di una contraddizione in termini. Infatti, vi sono - e vi saranno sempre, per ragioni geometriche - coloro che nelle aule di una assemblea si siederanno a sinistra e coloro che siederanno a destra, così come vi sono e vi saranno sempre coloro che si diranno di sinistra:

ma può accadere, come infatti sostiene questo insieme di saggi, che la toponomastica o l’identità dichiarata non corrisponda al contenuto. Il che è ovvio: gli abitanti delle vie che si chiamano Gramsci non sono tutti gramsciani, così come tutti quelli che nell’elenco del telefono si chiamano Croce non sono tutti crociani.

E poiché, come è noto universalmente, la reale qualità di un budino si può conoscere solo mangiandolo, gli scritti contenuti in quel volume hanno misurato la qualità di sinistra delle sinistre, assaggiandone la consistenza su una ottantina di temi economici, sociali, politici, ideali. Soltanto una minoranza degli autori viene da antiche esperienze comuniste o socialiste; i più appartenevano e appartengono a correnti varie di sinistra democratica, “azionista” come si diceva una volta, o “liberal” come dicono in America. La mancanza di sinistra nella sinistra non si riferisce quindi, nella maggioranza di quei testi, a una assenza di posizioni classiste tipiche, fino ad un certo punto, dei partiti del movimento operaio, ma piuttosto alla deliberata trascuratezza - o al rifiuto - di politiche coerenti con normali valori che dovrebbero contraddistinguere ogni forza di tipo progressista: laicità contro integralismi, legalità contro arbitrio del potere, solidarietà contro egoismo della ricchezza, onestà contro corruzione, libertà e autodecisione delle donne, primato della istruzione, e così via dicendo. Il quadro che ne risulta è penoso, per non dire drammatico: ma del tutto realistico.

D’altronde a provare lo smarrimento ideale delle sinistre, moderate o alternativistiche che esse siano, sta la incapacità di contrapporre una propria visione a quelle della destra. Si è al tal punto indebolito il contrasto all’avanzare nel senso comune dei più retrivi orientamenti da arrivare sino al culto per la ricchezza non importa come conseguita, alla diffusa sebbene indiretta rivalutazione del fascismo, a pericolose derive razzistiche. L’attacco alle basi stesse della convivenza e dei princìpi della democrazia fissati nella Costituzione ne è la conseguenza.

Se è vero, come appare ormai ovvio, che l’arroganza delle destre viene prima di tutto dallo smarrimento delle sinistre, allora rimane attuale l’interrogativo sui motivi vicini e lontani, cioè sulle origini, di una così grande e rapida caduta di forza morale, di coerenze ideali, di capacità progettuale e programmatica (e dunque di consensi) di quella che è stata una sinistra certamente molto forte, anche se in parte anomala rispetto a quella di altri Paesi economicamente sviluppati.

Una discussione annosa si è sviluppata, e continua, attorno al ricorrente tema della crisi a sinistra. Ma se questa discussione fosse stata realmente feconda la sinistra e le sinistre italiane non si troverebbero come si trovano. È vero che vi è un arretramento e una crisi di quasi tutte le sinistre europee, non solo le “alternative”ma quelle maggioritarie di impronta socialdemocratica. Ma le loro difficoltà sono di altra specie rispetto alle nostre. Comunque anche le loro difficoltà pongono la esigenza di cercare un po’ più lontano e un po’ più a fondo.

Questa richiesta, però, appare a molti, anche ai più desiderosi di un ritorno della sinistra, quasi una perdita di tempo, se non una elusione dei corposi motivi politici e dei grossolani errori che hanno generato la situazione attuale.

 

La comune rovina

Eppure, se l’insieme della sinistra italiana nell’ultimo decennio del secolo scorso è arrivata al dissolvimento, sia pure per opposti motivi, e se, poi, essa ha imboccato strade, sia pure opposte, che hanno portato alla situazione attuale dovrebbe essere chiara la necessità di cercare le cause del dissolvimento, prima, e delle strade sbagliate, poi, assai oltre la critica immediata delle decisioni politiche volta a volta assunte. Naturalmente, sono pienamente convinto che molte delle critiche di ieri e molte di quelle di oggi furono e sono basate su buoni e giustificati motivi, a partire dalle obiezioni alla definizione delle nuove identità a sinistra prima nel campo del Psi e poi in quello del Pci.

Mi sembra oggi innegabile - quali che fossero le opinioni di vent’anni fa - che quel che venne fuori dal dissolvimento traumatico del Psi e dell’autoscioglimento del Pci non portò a nulla di solidamente fondato. I due casi, certo furono diversi. Ma il disfacimento del Psi non si spiega solo con cause giudiziarie, poiché quel che ha portato anche all’intervento della magistratura dipendeva dalle conseguenze di un corso politico. E quel che è successo dopo ha dimostrato l’esistenza di contrapposizioni insanabili preesistenti giunte sino alla scelta di alcuni consistenti gruppi per la destra.

Analogamente l’autoscioglimento del Pci non veniva solo da un gesto improvviso,per me sbagliato nei contenuti e nel modo, ma da precedenti irrisolti problemi come ha dimostrato anche la fragilità di quel che è venuto subito dopo. Delle due formazioni nate dal Pci, che hanno comunque mostrato quanto ampio fosse il suo lascito, l’una, la maggiore, era tanto poco certa di quel che dovesse essere la parola “sinistra” con cui aveva scelto di definirsi da subire le incessanti metamorfosi di forma e di contenuto che si conoscono, fino all’abbandono del nome stesso, pur nella permanenza dei medesimi dirigenti.

L’altra formazione, la minore, era così sicura del significato del proprio nome “comunista” (da rifondare) da essere in tempi brevi abbandonata dai fondatori che quel nome avevano scelto di conservare e da generare, per partenogenesi, nuove formazioni minori. Naturalmente, anche nella diaspora dei comunisti italiani non mancarono singoli passaggi a destra. E ora siamo ad un nuovo Partito democratico, in permanente fibrillazione, a un livello di consensi simile a quello del solo Pci e a una sinistra ridotta in minuti frantumi.

Questi esiti dolorosi delle grandi formazioni storiche della sinistra italiana non devono cancellarne i meriti. Esse ebbero gran parte nella rinascita della democrazia italiana, rendendo protagoniste della vicenda politica e del reggimento dello Stato classi sociali prima escluse. Il patto costituzionale, cui concorse in modo decisivo l’ala più avanzata della Democrazia cristiana, non fu principalmente un compromesso fra diversi, quanto, piuttosto, una sintesi dovuta alla comune riflessione sulla tragedia rappresentata dal fascismo e alla comune lotta contro di esso: solo così si spiega il carattere innovatore di una concezione dello Stato per la prima volta, non solo in Italia, ispirata alla centralità e priorità del lavoro. È una volgarità e una sciocchezza aver ridotto - anche per responsabilità della sinistra - quella che viene chiamata “la prima Repubblica” al suo epilogo. Essa era minata dalla convenzione per escludere il maggiore partito dell’opposizione. E fallì il tentativo di arrivare a una democrazia compiuta con i medesimi attori che avevano dato vita alla Costituzione e alla Repubblica ma questo scacco - come oggi si vede - non fu un bene per l’Italia.

Su come sia maturato questo fallimento - e su quali fattori interni e internazionali vi concorsero - è aperta da tempo una ampia ricerca storica. Ma è certo che tra i motivi determinanti vi fu la crisi venuta da tempo maturando dei partiti – e, in essi, di quelli della sinistra.

La svolta che fu fatale al Psi (il primato della governabilità, la priorità del potere e, dunque, come disse Vittorio Foa, il danaro per il potere e viceversa) e la svolta che portò allo scioglimento del Pci (il ripudio della propria storia, il nuovismo finalizzato al governo) poterono conquistare la maggioranza dei gruppi dirigenti dei due partiti - e dei partiti stessi - perché il bisogno di cambiamento era reale e profondo. Per questo motivo nel Psi alla svolta craxiana parteciparono in un primo tempo anche molti che poi ne diverranno acuti critici. E, nel Pci, dove nacque subito una opposizione alla svolta detta della Bolognina, anche la maggiore delle mozioni (la seconda) di opposizione, tra cui era anche chi scrive questi appunti, sosteneva la necessità di un vero e proprio rifacimento del partito. E la mozione di un gruppo di compagne femministe proponeva un punto di vista del tutto autonomo e nuovo. D’altronde, Berlinguer era morto nel pieno di una azione volta a cambiamenti profondi del modo di essere del partito, seppure in direzione opposta a quello che avvenne poi.

Se, dunque, gli autori di quelle svolte cercarono di interpretare un bisogno di rinnovamento che era reale, i fatti confermano che i contenuti di quelle svolte portavano solo verso il burrone e che le improvvisate rifondazioni erano senza fondamento. Ciò non significa che coloro i quali si opposero a quelle improvvisazioni rovinose avessero una soluzione veramente valida. Nel Psi le voci di dissenso rimasero isolate per il pieno coinvolgimento, in un primo tempo, della destra e della sinistra interna nelle idee portanti del corso craxiano. Nel Pci le opposizioni all’autoscioglimento, che pure vedevano giustamente la assurdità di recidere le proprie radici, non riuscirono a indicare una via innovatrice convincente per la maggioranza ma neppure a comporre una minoranza sufficientemente coesa, come subito si vide. Le maggioranze spesso hanno torto. Ma non sempre le minoranze che a loro si oppongono hanno in tutto ragione. Un caso classico di un torto generalizzato, è quello della “comune rovina delle classi in lotta” come dice il Manifesto di Marx ed Engels in un passo molto noto e citato.

Da noi si ebbe - sia pure con diversità nei destini individuali e di gruppo - la comune rovina di un partito, dell’insieme della sinistra e di tutti i partiti che, dopo aver fatto insieme la Costituzione, si erano battuti tra di loro per mezzo secolo.

 

Il presupposto caduto

Il fatto è che era molto difficile allora, ma non è facile neppure oggi, capire che cosa ci fosse di vivo e di morto nella tradizione della sinistra novecentesca e, per ciò che riguarda in particolare i comunisti italiani, che cosa ci fosse da salvare della loro esperienza nel crollo del movimento comunista nato con la rivoluzione sovietica e con la III Internazionale. Tra i partiti di questa origine il Pci rappresentò una anomalia innanzitutto rispetto a quelli al potere, con un dissenso che si trasformò, alla fine, in rottura. A me sembra sostanzialmente giusta la tesi secondo cui il Pci non fu né una sorta di agenzia alle dipendenze dell’Urss né una socialdemocrazia con altro nome. Se fosse stato un partito di pura obbedienza sovietica esso sarebbe stato rapidamente spazzato via o ridotto a poca cosa, come accadde a quasi tutti i partiti dell’Europa occidentale di questo tipo, che pure avevano spesso contribuito validamente alla Resistenza antinazista. E dalle socialdemocrazie si distingueva (come sostiene con ampia argomentazione un recente libro di Lucio Magri) per un tentativo di “terza via”.

L’accettazione piena della democrazia e del mercato secondo lo spirito e la lettera della Costituzione italiana consentiva di pensare a una via riformatrice che correggesse i “particolarismi” (come li definì Togliatti in un discorso del 1946 in cui ricordava meriti e sconfitte dei pionieri del socialismo) del riformismo antico, capace di agire per obiettivi specifici di miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori ma non di unire le singole riforme in un progetto organico. Mi sembra plausibile la tesi secondo cui per perseguire una strada come questa, si potessero e, in certi casi, si dovessero fare scelte di merito diverse da quelle che effettivamente furono fatte.

Peraltro, sulla linea che venne realmente seguita non mancarono, pur da una permanente opposizione e pur con errori volta a volta più o meno discussi e corretti, risultati rilevanti per il benessere dei lavoratori (almeno sino alla fine degli anni Settanta), per la difesa della democrazia, per lo sviluppo economico, per il progresso civile. Ciò derivò dal fatto che, dalla sua rinascita nel 1944-45, il Pci, per impulso di Togliatti, fu un partito cui si aderiva, a norma di statuto, per il programma politico, non per la ideologia. Veniva rifiutato il mero propagandismo dell’avvenire, si voleva esprimere la difesa degli interessi delle classi sfruttate nel quadro di una politica capace di affermarne la funzione di governo. Il che esigeva una forte aderenza alla realtà di fatto e una attenzione, talora esclusiva, alle politiche di merito e alle discussioni sopra di esse.

Sul piano teorico l’eredità gramsciana forniva una straordinaria quantità di strumenti analitici sulla realtà sociale dell’Italia, e, più in generale, sulla realtà dei Paesi sviluppati e delle zone di arretratezza e di sottosviluppo e, dunque, consentiva una interpretazione del funzionamento di questa società opposta alla vulgata detta del marxismo-leninismo di impronta sovietica e a ogni forma di dogmatismo. L’elaborazione del concetto di egemonia, contrapposto a quello di dominio, implicava (sulla scorta della prefazione di Marx alla Critica della economia politica del 1859) una rottura con la imperante concezione meccanicistica del rapporto tra la base economica della società e le forme della consapevolezza culturale: sicché la idea della “riforma intellettuale e morale” si connetteva con quella della trasformazione dei meccanismi economici ma in una relazione di reciproca autonomia e di reciproci condizionamenti.

Non si spiega il consenso conquistato dal Pci se non si intende la portata che ebbe la influenza del pensiero di Gramsci nel determinarne la costituzione. Il che non significa che la sua lezione sia stata pienamente raccolta: particolarmente sul decisivo tema della “riforma intellettuale e morale” - come ha dimostrato Giuseppe Chiarante nei volumi in cui ripercorre la storia del Pci a partire dalla propria esperienza.

Soprattutto, però, a determinare il declino del Pci influirono non solo cause relative a un programma politico divenuto arretrato rispetto alle modificazioni economiche, sociali, culturali, ma influirono anche convincimenti teorici sbagliati. Infatti c’erano e pesavano grandemente alcuni presupposti non apertamente analizzati e non sottoposti al vaglio della critica nella sede di formazione della volontà progettuale di un partito politico e cioè nei suoi congressi. Il principale di essi era che, avendo la rivoluzione russa posto in essere la proprietà collettiva (statale o cooperativa) dei mezzi di produzione e di scambio e della terra, il socialismo era divenuto realtà effettuale iniziando il suo cammino non più solo teorico ma materialmente concreto.

È importante, mi pare, discuterne ancor oggi, per un bisogno di sincerità, ma anche perché si tratta di un tema su cui a sinistra si sorvola. Nessuno propone più l’esproprio dei mezzi di produzione e di scambio e della terra, ma il non parlarne non vuol dire fare chiarezza in se stessi. La idea che il socialismo fosse ormai in atto non ne ignorava le brutture: ma si riteneva che esso poteva essere riformato. La speranza che la riforma fosse possibile durò fino a Gorbaciov, nonostante la avvenuta rottura politica.

Fu certo un grave errore di giudizio. Ma se esso resse nonostante tutto, e nonostante i dubbi che in molti avevamo, non fu certo per tornaconto: non avevamo niente da guadagnarci, ma, al contrario, molto da rimetterci. Determinante, certo, fu la consapevolezza che la rivoluzione d’ottobre aveva avuto un valore liberatorio per milioni di sfruttati nel mondo, e la riconoscenza per il decisivo contributo sovietico, pagato con un enorme tributo di sangue, alla vittoria sul nazismo. Ma contavano anche scelte politiche immediate: era vero che l’esistenza del bipolarismo mondiale non solo evitava il rischio del dominio di uno solo, ma creando una forte emulazione tra le due maggiori potenze, aiutava le conquiste sociali in Occidente e la liberazione dal colonialismo nel Terzo mondo.

Le conseguenze di quel convincimento erano molto rilevanti. La più tragica fu che ogni prezzo poteva essere pagato per salvare quello che pareva l’ingresso del socialismo nella storia. È un fardello che pesa anche per chi non ebbe responsabilità in quegli eventi (parlo solo a nome di me stesso naturalmente).

Insieme a questa, vi erano anche altre conseguenze che parevano positive, ma si rivelarono controproducenti. Innanzitutto parevano finalmente superate le distinzioni presenti nei vecchi partiti socialisti tra massimalisti e riformisti: ma quel superamento era, in realtà, solo un armistizio, come si è visto quando ci si è trovati dinanzi alla necessità della propria ridefinizione. In secondo luogo pareva ormai superflua la discussione su quello che si dovesse intendere con la parola “socialismo”, mentre ce ne sarebbe stata una grande necessità.

Infine la supposizione di poggiare ormai su un dato certo (la costruzione del socialismo è iniziata), ebbe la conseguenza di bloccare la ricerca e di spingerla piuttosto verso la giustificazione dell’esistente che verso la sua analisi critica.

In realtà quel presupposto confondeva l’imposizione della proprietà statale mediante la presa del potere, l’onnipotenza del politico, la rivoluzione dall’alto, con un mutamento di civiltà. Certo, un mutamento ci fu, e fu profondissimo.

Ma con il passare del tempo e con l’aggravarsi delle contraddizioni se ne constatò il limite non più solo politico ma costitutivo.

Con le affermazioni di Enrico Berlinguer sulla democrazia come “valore universale” e sulla fine della “spinta propulsiva della rivoluzione d’Ottobre” si compiva innegabilmente una rottura di principio con il modello sovietico,già da tempo politicamente avviata. Tuttavia non si smentiva pienamente il presupposto della coincidenza tra “socialismo” e “espropriazione degli espropriatori” - come si diceva una volta. Anche se poteva apparire implicito considerare che quel presupposto fosse infondato date le conseguenze: la proprietà sociale si era trasformata in proprietà statale e questo in dominio burocratico.

Che questa involuzione potesse dipendere solo dal modo con cui il sistema era stato gestito e non da qualcosa che stava nella sua costituzione era insostenibile.

Perciò ancor prima che la vicenda sovietica arrivasse alle sue ultime conclusioni - quando i burocrati alla fine si trasformeranno in padroni più o meno mafiosi dando vita ad un regime di capitalismo selvaggio - nella elaborazione delle tesi di quella minoranza che opponeva una rifondazione allo scioglimento del Pci, si volle rendere chiaro il distacco da una concezione erronea.

Cesare Luporini propose di definire il comunismo come un “orizzonte” e cioè come una finalità che non si raggiunge mai. A me invece pareva più esatto parlare delle idealità socialiste e comuniste come “un punto di vista”, e cioè un modo di guardare criticamente alla realtà data e di suggerire comportamenti per modificarla in corrispondenza alle originarie intenzioni di liberazione e di libertà, togliendo di mezzo l’idea di una finalità prefissata e salvifica.

Questa posizione escludeva che si potesse riprendere la storia del Pci come se nulla fosse accaduto poiché di essa faceva parte integrante quel presupposto che si era dimostrato ingannevole.

Continuo a ritenere che sia stato sbagliato e ingeneroso (come ricorda il saggio di Guido Liguori su quel periodo finale) seppellire il Pci sotto le macerie del muro di Berlino confondendolo, tra l’altro, con molti di coloro che lo avevano osteggiato a lungo e, poi, combattuto apertamente dalle tribune erette in quel mondo che veniva crollando. Ritenevo allora, con altri, che tutte le modificazioni necessarie, comprese le più radicali, avrebbero potuto essere possibili con un cammino che tentasse di tenere unita una comunità costruita con tanta fatica evitando di rinnegare ciò che di positivo vi era in una tradizione, pur riconoscendone pienamente gli errori. Ma proprio perciò era per me impossibile pensare ad una rottura per il fatto di essere rimasto in minoranza.

La domanda che a quel punto mi sembrava si aprisse era se fosse possibile mantenere aperta una critica dell’assetto economico e sociale capitalistico senza presupporre una finalità che si era dimostrata fallace.

 

Quale realismo

La vittoria globale del modello capitalistico compresa la Cina e la Russia parve ai più che facesse piazza pulita di ogni distinzione in materia di analisi del modello vincente. Ogni valutazione critica era da considerare oramai una esercitazione inutile, la coda di una ideologia vetusta, di una “narrazione” finita.

La modernità coincideva con l’accettazione piena dello stato di fatto e dunque anche delle politiche liberistiche, in auge dall’inizio degli anni Ottanta.

L’idea di riforma abbandonava il terreno economico-sociale e si rivolgeva alla trasformazione istituzionale e costituzionale facendo propria come asse il bisogno di governabilità (il maggioritario, il rafforzamento dell’esecutivo) spalancando, così, le porte alla destra.

Rispetto a questo nuovismo, i cui esiti sono oggi palesi, è plausibile sostenere che sarebbe stato meno cervellotico indicare la via delle migliori socialdemocrazie come quelle scandinave. È vero, infatti, che esse, oltre al fatto che da nessuna parte hanno ceduto il passo a una destra come quella italiana (ma questo è anche un merito delle borghesie locali), non arrivano nelle loro acute lotte interne a un livello di confusione e di smarrimento paragonabile a quello del Partito democratico in Italia.

Allo stesso tempo, però, il fatto che proprio nel momento in cui si dimostra così acuta la crisi del liberismo esse stiano arretrando in molta parte dell’Europa occidentale (per non dire di quella orientale che ha altra storia) dimostra che esse stesse non hanno da proporre una politica alternativa credibile, tanto che, in modo solo apparentemente paradossale, la destra che pure reca responsabilità ancor più gravi per la crisi economica, può comporre blocchi elettorali vincenti: con il concorso, ovviamente, di ampi strati popolari.

Quella che sembrò la straordinaria innovazione di Blair, che rompeva anche con la tradizione socialdemocratica, oltre ad infrangersi nella folle guerra irakena, ha dimostrato tutta la sua inconsistenza di fronte al primo avanzare della crisi e al malcontento popolare. La sorte di Blair dovrebbe far riflettere anche quei settori di sinistra liberal-democratica, di lontana origine azionista, che, sia pur senza responsabilità diretta, hanno guidato dal punto di vista delle idee il processo di trasmutazione della sinistra storica italiana verso il partito democratico. Denunciare oggi giustamente l’avanzare dell’arroganza e del disprezzo della legalità della parte berlusconiana comporta una riflessione sulla insufficienza della sinistra di tipo liberal-democratico che anch’essi hanno contribuito a creare.

Il pensiero liberal-democratico, per quanto progressista possa essere, per sua natura considera come proprio confine la conquista - certo indispensabile - della eguaglianza dei cittadini davanti alla legge. Nel momento in cui ci si incomincia a porre il problema dei limiti della eguaglianza giuridica - data la disparità causata dalla collocazione sociale nel reddito, nei livelli di istruzione, nelle stesse possibilità di partecipazione politica - allora inizia la cultura socialista. È questa che ha consentito di intendere la esigenza dell’intervento per regolare e modificare anche i rapporti economici considerati, prima di essa, un dato di natura.

Ciò che in realtà è accaduto alla maggioranza della sinistra italiana è stato proprio il regredire, in nome della modernità, a una idea della politica come pura tecnica. Proprio il fallimento del tentativo di piegare l’economico all’onnipotenza del politico e questo a un ideale (il socialismo e il comunismo, appunto) assunto come scienza della storia e consapevolezza del bene, ha portato molti al convincimento che occorreva farla finita con la retorica delle promesse impossibili - il che è giusto - ma anche con l’idea della riforme sociali: poiché non ci sarebbe altra società da ipotizzare diversa da quella data, quella vincente, quella che si è dimostrata la più capace nell’usare la tecnica (o nel farsi usare da essa) ivi compresa la tecnica dei rapporti umani.

Non ignora, questo ragionamento, che esistono le classi sociali e i rapporti di forza tra di esse. Ma questi rapporti - si dice - sono dati e non possono essere spostati a piacimento. La abilità del politico che occupa lo spazio a sinistra si ritiene, così, che debba essere quella di dimostrarsi più capace di comporre le forze in modo da vincere per governare e governare non illudendosi di poter cambiare i processi “oggettivi”, ma al massimo per cercare di influirvi.

(Fu tipico il caso, quasi dimenticato, della guerra del Kosovo: partecipiamo, ma limiteremo il tempo dei bombardamenti, e siccome i bombardamenti non cessavano: daremo le basi, ma non bombardiamo noi e così via). Si finisce, così, per accettare qualunque cedimento.

Nasce in questo modo la sinistra senza sinistra che, a un certo punto, scontenta anche i liberal-democratici che, per così dire, un cuore ce l’hanno e cioè hanno princìpi cui vogliono restare fedeli (per esempio, la laicità, il senso dello Stato, il rispetto della divisione dei poteri, eccetera): quelli che ritenevano i propri scolari, vanno oltre il segno. Ma sarebbe sbagliato ritenere che questa pratica della politica come tecnica sia stata posta in essere, a sinistra, solo per responsabilità di qualcuno dei dirigenti del Pds, Ds, Pd. Se si riguarda anche alla vita del Pci si troverà crescere, nella polemica contro i governi di allora, l’accusa non già di governare male o di governare secondo interessi di classe, ma di “non governare”. Il tema della “governabilità” del sistema, cioè, preesisteva alle svolte convergenti del Psi dopo De Martino e del Pci al momento della dissoluzione: e, naturalmente, è un tema molto serio, ma non neutro.

Viene posto come neutro da destra perché i valori e i fini sono dati, ma non potrebbe essere assunto come neutro a sinistra dato che questa, in teoria, dovrebbe avere valori distinti da quelli della destra per competere con essa. Ci vuole, cioè, sempre un qualche aggettivo per definire la governabilità.

Poiché il procedere della vicenda della sinistra storica aveva reso evidente che molte certezze del passato non erano fondate, la nuova generazione di dirigenti pensò, comprensibilmente, che occorresse un sano bagno di realismo. Sfortunatamente, c’era un fraintendimento. La realtà sociale non è mai una cosa statica. Essa è il risultato di sollecitazioni e di spinte tra di loro diverse o contrastanti.

L’errore non era stato nella scoperta dell’esistenza della lotta tra le classi, ma nel chiudere in essa tutta la storia. Opporsi alle fantasticherie di chi pensa di “vivere dentro reami immaginari” è necessario perché da certe fantasticherie può nascere il peggio, ma il realismo non è constatazione e basta.

Esso è ricerca e scoperta della realtà per poter partecipare alla sua costruzione.

In definitiva, la idea che le ingiustizie sociali constatabili in tutte le società di tipo capitalistico chiedano di risalire alle contraddizioni generate dal carattere sociale della produzione e dall’appropriazione privata del profitto voleva essere ed era una scoperta autentica di un aspetto della realtà. Ma quando si pensò che questa scoperta esaurisse tutto l’esame della realtà allora essa si rivolse contro se stessa, perché interruppe l’analisi critica aprendo la strada al fallimento. La caduta della equazione tra socialismo e mutamento proprietario e la vittoria del capitalismo, non fecero certo cessare le contraddizioni le incongruenze o i mali cui di desiderava porre rimedio e per cui si riteneva di aver trovato la medicina. Che questi mali siano avvertiti come esterni a sé dalle classi, dai ceti (e dalle persone) che entro le società capitalistiche traggono condizioni più o meno gradevoli per l’esistenza giustifica un pensiero che si arresta alla eguaglianza giuridica. Ma questo pensiero non dovrebbe accontentare chi ha come prima ragione quella di essere la rappresentazione dei problemi delle lavoratrici, dei lavoratori, delle ampie fasce di emarginazione e nutre l’ambizione di rappresentarne i bisogni, le aspirazioni, e di contribuire a trovare le soluzioni per corrispondervi. Non c’è realismo se non si vede l’ingiustizia sociale, il cumulo di sofferenze su cui si regge la società, se si rinuncia alla idea stessa di cambiare il mondo.

 

Il capitale in movimento

Escludere la dogmaticità di un presupposto che pareva nato dal pensiero critico non significa escludere la necessità del pensiero critico, ma al contrario, riconquistarlo. Ciò che fece difetto, a un certo punto della storia della sinistra novecentesca, fu non già l’eccesso di capacità critica, ma - perfettamente al contrario - la sua insufficienza e, nei casi estremi, la sua assenza. La lunga disputa sulla democrazia tra socialdemocratici e comunisti contribuì a bloccare una ricerca vera su se stessi e sul mondo. Era evidente ai comunisti italiani fino al loro nuovo inizio nel 1944-45 che le critiche che si possono fare alla democrazia (da Aristotele in poi) non possono e non debbono significare soppressione della democrazia, ma capacità della sua evoluzione: e a questa idea si ispirò - per opera comune di tutti i partiti - la Costituzione del 1948.

Questa idea di una democrazia sempre in cammino fu chiamata, in rapporto alle idee di trasformazione sociale, (nel programma del Pci del 1956), “via italiana al socialismo” e solo alla fine venne definita (credo di avervi contribuito) come via del socialismo. Il che non ha nulla a che vedere con la identificazione della democrazia occidentale (minata in radice dal dominio dei detentori o gestori del capitale) come valore assoluto, magari da imporre ai riottosi con le armi, secondo la dottrina di Bush. Non solo c’è la “democrazia degli altri”, come ha spiegato Amartya Sen, ma ci sono già dei diversi modelli di democrazia anche in Occidente. Uno dei più avanzati è contenuto, appunto, nella Costituzione italiana (autonomia della pubblica accusa, contro cui si batte la destra italiana - per riferirsi a una esempio attuale - è una delle molte prove di questa qualità avanzata).

È indispensabile stare sul terreno democratico (si ricordi anche la dura e profetica critica della Luxembourg a Lenin quando egli sciolse la Costituente) ma ciò non può e non deve sospendere l’analisi di quel che la democrazia sia nella realtà della economia capitalistica e, di conseguenza, l’analisi di come questa realtà si evolve. È in questa analisi delle trasformazioni dell’assetto capitalistico che è intervenuta e interviene una cesura che spinge la sinistra storica al declino. Il capitalismo che si viene sviluppando negli Stati Uniti sotto la spinta della grande crisi del ’29, pur fondato come sempre sul medesimo principio del profitto, non ha il medesimo assetto funzionale di prima. La teorizzazione di Keynes e la pratica suggerita dalle sue idee comportò aggiustamenti non piccoli. Il tentativo di distinzione tra gestione e proprietà che risale agli anni Trenta non è una rivoluzione, come si disse (la “rivoluzione manageriale”), ma comporta la necessità di comprendere problemi nuovi. Il vento liberista ha mostrato la fragilità di questi mutamenti. Ma, a sua volta, non ha lasciato le cose come prima, in un gigantesco processo di ristrutturazione.

Keynes è stato quasi sommerso, i manager sono diventati i nuovi detentori del potere, e non più solo i rappresentanti della proprietà, ma proprietari essi stessi con il metodo delle stock options. (Tra l’altro, pur fatte le dovute differenze, è curioso vedere l’analogia con i burocrati russi che, crollata l’impalcatura, stamparono rapidamente dei pezzi di carta chiamati azioni tenendone la maggioranza e diventando padroni). Se fosse stata vera la promessa che con la svolta manageriale si sarebbe alfine realizzata una sorta di funzione tecnica e uso tecnico della accumulazione, bisognerebbe parlare del “tradimento dei manager”, come si parlò nel passato del “tradimento dei chierici” a proposito dei filosofi che parevano rinunciare alla razionalità chiarificatrice rispetto ai mali peggiori del mondo: ma più che di un tradimento, si è trattato di un processo scontato. La possibilità che la accumulazione conosca un uso “tecnico” è immaginabile solo attraverso una qualche forma di programmazione non dettata dagli interessi di grandi lobbies e di grandi potenze e chiede, dunque, trasformazioni profonde per cui vale la pena di battersi e che, in qualche misura, furono enunciate dai movimenti per un’altra globalizzazione. Il governo mondiale in nome dell’intera comunità umana non è più una ubbia, è avvertito come necessario, ma è, certo, cosa molto lontana.

Tuttavia la diffusione della proprietà azionaria - da cui viene il lento declino del “capitalismo familiare” nelle grandi imprese, l’emergere della “public company” e l’affermarsi dei manager alla testa delle maggiori imprese - poneva e pone doveri, problemi ma anche possibilità nuove a sinistra, assai poco scandagliate.

Analogamente la finanziarizzazione del capitale - che è cosa antica e prevista da Marx - è venuta assumendo aspetti che una parte degli studiosi di economia, quelli che stanno fuori dalla “ortodossia” ma anche alcuni “ortodossi”, ha analizzato e denunciato per tempo, nella inconsapevolezza o nella indifferenza di gran parte della sinistra. Solo a causa della crisi economica sono venuti di attualità i guasti determinati dai paradisi fiscali, dagli strepitosi compensi dei manager, della finanza fondata sul nulla al fine della rapina dei risparmiatori, del colossale conflitto di interessi entro le imprese e entro il cosiddetto sistema di controllo sulle imprese. È solo una parte della realtà. Ma dove è stata una azione delle sinistre italiane ed europee sui temi di questa natura?

Non vi è alcuna azione riformatrice se non ci si rende esperti dei meccanismi interni al funzionamento attuale del capitalismo (ivi compreso l’uso indiretto dell’accumulazione mafiosa) e non si va all’offensiva per modificarli in radice.

 

Il movimento nel lavoro

La conseguenza più grave sia della confusione tra la fine di un dogma e la rinuncia al pensiero critico sia del rifiuto di vedere ciò che veramente era crollato, sta nel distacco dalla propria stessa base sociale, cioè innanzitutto dal mondo del lavoro: un distacco divenuto ormai così evidente che anche una sinistra non sinistra come il Partito democratico pensa di correre ai ripari.

All’origine dei partiti della sinistra storica ci furono le leghe, le associazioni di mutuo soccorso, i circoli ricreativi operai che si incontrarono, poi, con il pensiero socialista di origine marxiana. Quei partiti si chiamarono del movimento operaio perché da li scaturivano: e per lungo tratto si identificarono con il movimento dei lavoratori. Il distacco di oggi non dipende (solo) dalla cattiva volontà e dunque non si colma con la buona volontà. La sinistra residua che dichiara come proprio principio la centralità del lavoro ha un 2%, circa, del voto politico degli operai: e la sinistra moderata è minoranza rispetto alla somma della destra e della Lega. Si tratta di uno smottamento che parla di una difficile comunicazione tra sinistre (tutte) e lavoratrici e lavoratori così come sono, nei loro interessi e nella loro cultura - in parte plasmata, lo si sa, dai mezzi di comunicazione di massa.

È con queste persone viventi che bisogna interloquire, innanzitutto rispettandole.

E a me sembra che lo smarrimento di una capacità critica nella comprensione del presente - cioè la debolezza nella cultura della realtà - abbia portato anche a una incapacità di comprensione di bisogni e di mentalità in nome di formule senza valido significato: che esse siano dettate da una ideologia interclassista o dalla ripetizione di un classismo d’altri tempi, irriconoscibile dai più.

È un errore capitale ignorare antiche parole come sfruttamento e ingiustizia sociale. Ma va articolato il loro significato: lo sfruttamento riguarda tutti, ma in modo assai diverso il lavoratore a posto garantito, chi ha un posto fisso ma sempre in pericolo, chi è precario, chi ha solo un lavoro nero. E allo sfruttamento si unisce, a tenere in piedi il sistema, l’autosfruttamento, di cui si parla raramente a sinistra, di molti “lavoratori autonomi” quasi che fosse una scelta fatta per divertimento. E si è regredito anche nella valutazione della difficile condizione del lavoro dei tecnici e dell’intellettualità diffusa: la cui funzione è determinante per la produzione e per ogni ipotesi di trasformazione.

La scoperta, da parte della sinistra moderata, dell’intreccio degli interessi - nella crisi e prima di essa - tra chi offre e chi domanda lavoro, particolarmente nelle piccole e piccolissime aziende (dov’è la maggioranza dei lavoratori) ma non solo in esse, è lo sfondamento di una porta aperta, dato che proprio i classici del pensiero socialista avevano riflettuto su questo rapporto simbiotico. Il che non significa che non vi sia distinzione o contrapposizione di interessi tra chi compra e chi vende. In più il prezzo, l’organizzazione, le condizioni del lavoro, il modo come il lavoro viene percepito differenzia anche le lavoratrici e i lavoratori dipendenti tra di loro. Sta in questa incapacità di capire e di reagire la prima origine del distacco tra sinistre e lavoro, e dei cedimenti sempre più gravi. Di cedimento in cedimento siamo arrivati al fatto che si arriva a proporre per legge che i datori di lavoro possano derogare unilateralmente ai contratti sottoscritti: una vendetta di classe. E siamo tornati a conoscere forme di neo schiavismo: un ritorno alla barbarie.

Al tempo stesso, la diversità o contrapposizione degli interessi non può essere evocata ignorando l’intreccio che esiste: quando una cattiva conduzione industriale provoca il rischio di chiusura della fabbrica Innse di Milano, giustamente la Fiom organizza la resistenza ma coopera anche alla ricerca, e trova, un imprenditorie capace per tenere aperta la fabbrica. Se questo intreccio tra capacità imprenditoriale e diritti del lavoro viene ignorato, non si combatte ma si favorisce la china corporativa imboccata da una parte del sindacato. La chiave di una linea corretta sta nel richiamo costituzionale alla funzione sociale della proprietà. La lotta economica è tanto più valida quando si accompagna alla autonoma rivendicazione sindacale la proposta di una politica industriale e di un progetto.

Quella che fu chiamata la fine dei margini per il riformismo ha colpito il sindacato e le sinistre, non il padronato e le destre. Ma proprio la fine delle possibilità di successo per una sinistra capace solo della lotta (sacrosanta) per redistribuire il reddito prodotto dallo sviluppo capitalistico, implica la necessità - per la sinistra sociale come per quella politica - di unire alla politica redistributiva quella che riguarda i modi, le forme, il modello dello sviluppo. È ciò che già accade, ad esempio, quando il rifiuto dell’energia nucleare si accompagna alla lotta per investire nella salvaguardia ambientale e nella energia verde: ma questa azione è ancora di pochi. Avanza anche una nuova concezione del lavoro che spesso le sinistre non conoscono per nulla. Il fatto che (come ha argomentato il “manifesto sul lavoro” del gruppo milanese di “Sottosopra”) le donne vengano ponendo in campo una concezione non solo economica del lavoro (vale a dire: far pesare sul mercato del lavoro non solo il dato retributivo, ma i bisogni più complessivi della persona) è il sintomo della necessità di un altro modo di pensare il lavoro: che deve certo partire dall’emergenza della disoccupazione, del sottosalario, della piaga del lavoro nero, ma non può fermarsi ad essa. Dare la parola ai lavoratori e, contemporaneamente, capire la esigenza di una sua nuova narrazione. Vedo in questo la forza delle iniziative della Fiom che ha posto al centro il tema della democrazia: che democrazia è se i lavoratori non possono neppure votare sui loro contratti, se decidono per tutti i sindacati, magari minoritari?

L’esempio della lotta per la democrazia sindacale dimostra che la Costituzione si difende attaccando, non solo spiegandone la validità.

 

Idee come comportamenti

Quanto più si arretra, tanto più si perde. Ma perché si è arretrato tanto? Perché si deve oggi scoprire come se fosse cosa nuova che intorno ad un sistema di appalti pubblici senza regole si crea un verminaio ripugnante? Pareva che tutto il problema del sistema politico italiano dipendesse dal sistema elettorale proporzionale (e non dalla democrazia dimezzata). I risultati dei cambiamenti fatti sono evidenti. In effetti, così come si è trascurato l’esame concreto del funzionamento del sistema economico, si è messo in parentesi l’esame del funzionamento concreto della macchina pubblica e del sistema della rappresentanza.

È logico che si finisca con il non sapere da che parte si può incominciare per porre argine alla crisi della democrazia, che - si dice - è generale: certo, ma qui da noi è certamente più grave che altrove. La democrazia può funzionare e non trasformarsi in demagogia (oggi si dice: populismo) innanzitutto se c’è informazione e consapevolezza.

Il potere informativo non da ora è il potere più grande. Un intelligente reazionario dell’800 diceva: datemi i giornali e diventerò democratico. Berlusconi non ha vinto solo per le televisioni, ma anche perché ha ereditato un blocco di interessi intenzionati a difendersi: senza le televisioni, però, non avrebbe retto. Si sa come è andata con la regolamentazione (mancata) del conflitto di interessi. Ma la bella manifestazione di qualche tempo fa per la difesa della libertà informativa è stata cosa unica e non una lotta permanente condotta non solo da un gruppo editoriale, ma da un fronte politico unitario. La questione della libertà della informazione la spia di un problema più grande che riguarda i fondamenti di una possibile rinascita: e cioè il tema stesso della libertà per la sinistra Si sottolinea che sinistra vuol dire lotta per la eguaglianza: il che è giusto. Ma, come sappiamo, una eguaglianza senza libertà non è eguaglianza - è un regime da caserma che suscita prima o poi la rivolta. L’eguaglianza può nascere solo se si garantiscono condizioni di libertà: e la parola libertà è stata lasciata alla destra, che la calpesta e la tradisce.

La libertà così come è concepita e insegnata nella società in cui viviamo è lotta di tutti contro tutti e cioè è la capacità del più forte di dominare il più debole.

Ma c’è anche un’altra concezione della libertà non definita solo concettualmente ma concretamente praticata: la libertà, cioè, non come espressione del dominio ma - al contrario - come volontà dei più capaci di lavorare per i più deboli. Questo è già presente oggi in tanta parte del volontariato (e qui ha valore dire: sia esso promosso da credenti o non credenti), nella sinistra sociale, nei movimenti giovanili che si auto organizzano nell’autonomia del movimento femminile. Dentro queste esperienze viventi, tutte diverse ma convergenti in una idea positiva e generosa dell’agire umano, è possibile cercare nuova linfa per cambiare una politica avvilente.

È vero che una forza politica è capacità di proposta alla società e non solo interrogazione della società: ma la proposta può scaturire solo dall’essere presenti dentro i problemi delle persone, dei ceti, delle classi sociali, come fanno innanzitutto coloro che dimostrano fattivamente, nel concreto operare, la validità delle loro idee e la loro capacità di essere utili ad altri: non vedo dove altro andare a cercare le persone che siano degne di essere proposte per la stessa funzione della rappresentanza politica. Le idee debbono trasformarsi in comportamenti, se vogliono essere produttive di realtà politica e sociale. Le sinistre attuali sono poco credibili innanzitutto per i comportamenti concreti, personali e di gruppo.

Ricordo bene una critica severa ai comunisti di ieri: voi volete guarire tutti i mali del mondo, ma non vi accorgete se vicino a voi c’è qualcuno che sta soffrendo. Non so se fosse una critica completamente fondata. Ma temo che sia sempre più vera per le sinistre di oggi.