Marco Revelli - I partiti di oggi, un ostacolo per chi non vuole arrendersi

alternative per il socialismo n. 13 aprile-luglio 2010

 

 

 


 

 

La forma-partito è stata a lungo centrale nella nostra democrazia. Anzi, potremmo dire di più: la democrazia italiana è stata concepita, dai “padri costituenti”, come democrazia di partito, facendo cioè del partito politico un elemento intrinseco e inscindibile dalla pratica democratica.

Il sistema politico che è emerso dopo la Liberazione e che è stato formalizzato nella Costituzione del 1948 è definibile, tecnicamente, col termine “parlamentarismo di partito”, per distinguerlo sia dalle forme di parlamentarismo maggiormente incentrate sulla figura del “premier” (il Premierato inglese ma anche il Cancellierato tedesco) da una parte, sia da quelle affidate alle mere individualità dei parlamentari (il parlamentarismo assembleare francese della Terza Repubblica).

Qui, protagonista della pratica parlamentare come, d’altra parte, della vita politica era infatti il Partito come entità collettiva (superiore dunque a tutte le “individualità”, sia verso l’alto - il premier - sia verso il basso - i singoli cittadini), mediazione indispensabile tra società civile e istituzioni, soggetto politico per eccellenza (anzi, per molti versi, monopolista della politica).

Spingevano in questa direzione delle ottime ragioni, profondamente radicate nella storia nazionale. Sia in quella più recente, che in quella di più lunga durata. Si usciva da un ventennio di dittatura, in cui il culto della personalità e il mito del Capo avevano prodotto guasti mortali, e in cui l’assoluta prevalenza dell’esecutivo (il Governo) sul potere legislativo (il Parlamento), spinta fino alla dissoluzione del secondo, era stata la cifra più esplicita del carattere tirannico del potere.

Occorreva predisporre solidi anticorpi contro le tentazioni prodotte dalla personalizzazione della politica e dall’assenza di controllo sulla pratica di governo, e infatti la centralità affidata al Parlamento e la predisposizione di forti strumenti per garantirne il pluralismo furono le scelte adeguate: parlamentarismo puro (senza filtri tra la volontà parlamentare e la vita dei governi, neppure la cosiddetta “sfiducia costruttiva” alla tedesca), e collegialità piena del governo, con un premier esplicitamente primus inter pares.

D’altra parte vent’anni di dittatura avevano significato una condizione di diffusa “ignoranza politica”, di diseducazione alla pratica della libertà e dell’autogoverno, di depressione profonda delle culture civili, in un Paese tradizionalmente fragile dal punto di vista dell’impegno pubblico e della partecipazione consapevole, malato già prima della dittatura di conformismo, unanimismo, ministerialismo, clientelismo e trasformismo.

 

I partiti “custodi”

I partiti politici democratici, sopravvissuti in clandestinità negli anni della dittatura e rinati alla vita pubblica nel 1943 erano stati i soli “custodi” di quelle culture politiche senza le quali una democrazia non rinasce e non sopravvive. E nello stesso tempo avevano costituito i soli luoghi di formazione e di selezione di una classe politica in grado di praticare la sfera pubblica.

Una classe politica - vale la pena sottolinearlo - di gran lunga più colta, preparata, e moralmente attrezzata (perché formatasi alla dura scuola dell’esilio, della lotta clandestina e del sacrificio di sé) di gran parte del proprio potenziale elettorato, e per questo destinata a un ruolo - come dire? - “pedagogico”. Ad accompagnare un paese non solo economicamente, ma anche politicamente e culturalmente devastato, sulla strada di una riconquistata - ma tutta da costruire - democrazia.

Tra le pieghe del ventennio, nei circuiti sommersi e terribilmente minoritari dell’opposizione al fascismo, si era formata un’élite democratica colta e consapevole, selezionata dal sacrificio e dalla solitudine, che aveva nella struttura dei partiti (sia dei futuri partiti di massa, sia nei più piccoli ma non meno combattivi partiti di quadri) il proprio habitat naturale e il proprio strumento d’azione; e che se non costituì - com’era nei sogni dei fautori della lotta di liberazione come “rivoluzione democratica” - la parte maggioritaria della classe dirigente dell’Italia repubblicana, tuttavia vi svolse per un paio di decenni un ruolo propulsivo di stimolo e di esempio, dal punto di vista quantomeno dello “stile politico” se non dei contenuti.

 

Il proporzionalismo puro

Naturalmente tutto ciò presupponeva, per definire un quadro coerente, l’abbinamento di quella particolare forma di governo a un sistema elettorale proporzionale puro, condizione essenziale perché il ruolo sovrano del parlamento e la funzione pedagogica dei partiti si coniugassero con un solido e reale pluralismo politico. Perché il monopolio del “politico” affidato ai partiti non si trasformasse in monopolio della decisione politica affidato a un solo partito. E infatti la legge elettorale - affidata com’è noto non alla Costituzione ma alla legislazione ordinaria - fu improntata, ex origine, al più puro dei proporzionalismi.

Quell’impianto ha “funzionato” per un non breve periodo, permettendo - grazie alla sua flessibilità - all’Italia di superare passaggi delicatissimi e di affrontare sfide mortali come quella della “guerra fredda”, per fare solo un esempio, particolarmente drammatica in un paese di “frontiera” tra Est ed Ovest, diviso tra due grandi partiti di massa contrapposti dal punto di vista degli schieramenti internazionali. O quello del brusco passaggio da una società prevalentemente rurale-contadina a una industriale-operaia. O, ancora, la sfida posta dalla secolarizzazione in un paese a prevalenza cattolica, in cui la frattura confessionale aveva pesato enormemente sullo stesso moto unitario risorgimentale.

Passaggi, tutti, irti di conflitti potenzialmente esplosivi (di “fratture”, come dicono i politologi, radicali), i quali non sono precipitati in forma aperta grazie alla elasticità di quel modello istituzionale, alla relativa “impersonalizzazione” delle dinamiche politiche, e alla capacità di parlamentarizzazione di conflitti ma anche di focalizzazione delle loro problematiche propria di quel modello di “parlamentarismo puro” a base partitica.

 

Gli anni ’60 e la critica ai partiti

Poi ha subito le prime sfide. Dal basso, all’inizio. Da parte di una società civile che, superato il periodo durissimo della ricostruzione, ha incominciato a elaborare le proprie aggregazioni e le proprie culture. Grazie a un processo di democratizzazione che ha prodotto le proprie forme e i propri canali di socializzazione politica e di acculturazione civile.

I movimenti degli anni Sessanta - non solo quello studentesco, la cui esplosione ha segnato il conclamato compimento di quel processo di autonomizzazione del sociale – ma anche quelli interni al movimento operaio (di cui i fatti di piazza Statuto a Torino sono un esempio, e l’elaborazione dei Quaderni rossi una testimonianza).

Fu allora che apparve chiaro l’emergere di un’esplicita sfida - dal segno apertamente democratico - al monopolio del politico detenuto dai partiti - in particolare dai due grandi partiti di massa della Prima Repubblica: la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista.

Fu allora che - esauritosi il ruolo pedagogico delle origini, appannata la superiorità morale della classe politica non più legittimata dalla stagione “eroica” dell’opposizione antifascista e sempre più composta da professionisti della politica dalla formazione prevalentemente funzionariale - la “forma partito” apparve non più come una necessità “naturale”, ma come una modalità tra le altre della partecipazione e dell’esperienza democratica, a cui affiancarne altre, per certi versi più efficaci. E più vicine alle dinamiche di una società in rapido mutamento.

 

Il ’68, un’occasione perduta

Per questo il Sessantotto ha un ruolo periodizzante anche nella nostra vicenda istituzionale. E’ stato la grande occasione di apertura del politico al sociale. La grande opportunità per innovare le forme della partecipazione politica e gli stessi assetti istituzionali. Quell’occasione fu perduta.

Di fronte a quella sfida il livello politico-istituzionale prima fece il vuoto (la prima metà degli anni Settanta sono segnati dall’assenza delle forze politiche istituzionali dai grandi processi di mobilitazione e di legislazione stessa: le grandi riforme furono promosse e sostenute più dalle organizzazioni sindacali, con un ruolo quasi esplicito di supplenza). Poi si richiuse a riccio su se stesso, blindandosi: le maggioranze bulgare della seconda metà di quello stesso decennio, i governi di “unità nazionale”, sono il segno di quella auto-segregazione del sistema dei partiti rispetto alle domande e alle sfide dei movimenti sociali.

La difesa di un monopolio non più giustificato, a cui non rimediò, purtroppo, il tardivo ripensamento del Pci di Enrico Berlinguer, e su cui lucrò in forma smodata, e nefasta, l’affarismo manovriero craxiano a cui si deve, senza dubbio, il vero colpo di grazia alla legittimazione del modello politico istituzionale della Prima repubblica. E da cui seguì, apparentemente come risposta, in realtà come prolungamento, la retorica delle “grandi riforme” istituzionali che aprì gli anni Novanta.

 

La degenerazione partitocratica

Fu allora che la Prima repubblica entrò in coma. E che fu drammaticamente lesionato l’edificio istituzionale progettato dai “padri costituenti”, attaccandone uno dei pilastri portanti. Il più accessibile, per certi versi, perché affidato alla legislazione ordinaria: il sistema elettorale. Fu quello sciagurato modo di rispondere alle legittime richieste della società civile di una vera autoriforma della politica spostando il terreno del contendere, dallo stile delle forze politiche all’assetto delle istituzioni, la vera causa della successiva degenerazione.

Facendo saltare il pilastro proporzionalistico, fu soppresso il vero anticorpo contro la degenerazione partitocratica della “democrazia di partito” italiana. Con l’introduzione non solo del sistema maggioritario, ma della filosofia del maggioritario in un modello pensato per il proporzionalismo, si aprì la strada alla selvaggia personalizzazione della politica e alla degenerazione in senso personalistico dei partiti.

Il partito non più come luogo di incontro e organizzazione delle diverse culture politiche e dei molteplici progetti di società, ma il Partito come protesi per individui o piccoli gruppi in competizione nel mercato elettorale per la monopolizzazione del consenso.

 

La “forma partito” ostacolo alla partecipazione

Non scomparve, dunque, la “forma-partito”. Anzi, mantenne la propria pretesa di rappresentare totalitaristicamente la dimensione del politico, ma si aprì alle peggiori contaminazioni: narcisismo, cinismo, arroganza, competitività personalizzata, delirio di onnipotenza, disprezzo del bene comune, appropriazione privata della sfera pubblica. Soprattutto, disperata volontà di conservare e difendere con ogni mezzo la propria centralità in una società ormai priva di centri e strutturalmente votata al politeismo dei valori.

Come tale, oggi - con le caratteristiche che la nostra vicenda nazionale e il modo con cui è stata maggioritariamente interpretata le hanno attribuito - la “forma-partito” funziona come principale ostacolo alla ripresa di un’autentica partecipazione democratica. Costituisce un tossico potente, e per certi versi mortale, per tutto ciò che, al livello del sociale, si propone di ripristinare una dialettica civile, di aggregare forze nuove, di elaborare linguaggi capaci di comunicare istanze di trasformazione dello stato di cose esistente.

Come per Sisifo il masso, così oggi il Partito (sfregiato da una pratica ormai quasi ventennale) finisce regolarmente per ripiombare addosso a chi si sforza di sospingerlo in alto, verso la sua antica vocazione di strumento di presa di parola e di istanza di trasformazione, ed appare, realisticamente, un ostacolo per chi non vuole arrendersi.