Gianni Rinaldini e Luca Casarini - La promessa di Genova

alternative per il socialismo n. 15 febbraio-marzo 2011
 

 


 

 

Trovarsi oggi a ragionare su alcune categorie che un tempo segnavano la radicale differenza di visione del mondo tra chi è cresciuto all’interno della cultura e le pratiche del movimento operaio e del sindacato, e chi ha sempre fatto riferimento all’altro movimento, quello che si è sviluppato attraverso la presa di parola dell’“operaio sociale”, sembra essere oggi non solo possibile, ma più facile.

L’obiettivo è definire un “comune” sentire di fronte alla crisi, per rovesciarne gli esiti e la traiettoria. Va da sé che questo “incontro” tra diversità è un cammino che non si risolve se non attraverso esperienze che si vivono assieme. Ma la crisi, e l’uso politico che ne viene fatto da parte capitalistica, spinge verso questa direzione. Nessuno dei due percorsi che si stanno parlando ha in sé la soluzione e solo disegnando un nuovo “territorio” di pensiero e di pratiche, di obiettivi e descrizioni del mondo, che forse si riuscirà a trasformare la crisi in una formidabile occasione per conquistare un’alternativa al capitalismo stesso.

Questo tema è all’ordine del giorno e, a differenza di altre epoche, mostra tutta la sua concreta necessità materiale. Una crisi strutturale che sembra senza uscita, senza sviluppo, è un fatto nuovo. Terribile per un verso, straordinario per l’altro. E’ forse questa nuova condizione, di lunga violentissima stagnazione senza dinamica ciclica, che pone con urgenza il tema dell’alternativa. E che, soggettivamente, fa incontrare culture diverse. E’ con questo spirito che vorremmo farvi parte di ciò che anche personalmente, tra di noi e con altri, stiamo discutendo e provando a tradurre in una pratica comune.

 

L’uso politico della crisi

Vi sono elementi fondamentali che compongono la crisi e le sue rovinose conseguenze sulle vite di milioni di persone: li indicano dei processi tendenziali già individuati fin dagli anni ’70 che oggi arrivano a compimento. L’uso politico della crisi, cioè la sua interpretazione da parte capitalistica e ciò che questa lettura spinge nell’agire capitalistico, anche quando l’azione è senza possibilità di pianificazione lunga, ha in alcuni passaggi determinati la sua genesi. Sono due aspetti inscindibili, quello della crisi come dato oggettivo e quello di essa come utilizzo soggettivo per compiere scelte in cui l’arbitrio è totale, e alla fine sono sempre queste ultime a prevalere. Come dire: è andata così, ma poteva anche essere diverso. Ma può risultare utile, per comprendere meglio cosa abbiamo di fronte, fuori da ogni determinismo, provare a cercare più indietro l’inizio dei processi.

A metà degli anni ’70 la città di New York ricorre ai fondi pensione dei suoi impiegati pubblici per finanziare il suo debito pubblico, la cui insolvenza minacciava un default senza precedenti. Successivamente nel 1980: Reagan negli Stati Uniti risolve la vertenza sindacale licenziando e sostituendo i controllori di volo in sciopero, la Thatcher in Inghilterra distrugge il sindacato con la sconfitta della dura lotta dei minatori e nel nostro paese la sconfitta operaia alla Fiat.

E’ l’inizio di un processo storico che oggi estende le sue caratteristiche a livello globale, accompagnando le trasformazioni dei processi produttivi, e in sostanza la vera e propria mutazione dei dispositivi di creazione della ricchezza e del lavoro. Ce ne parlano approfonditamente economisti come C. Marazzi, che affrontano la finanziarizzazione del capitalismo all’interno dell’irriducibile conflitto tra capitale e lavoro, tra spinta all’uscita dallo sfruttamento e tentativi continui di riprodurlo spingendo solo sempre più avanti.

La crisi del debito sovrano, che ha nella socializzazione “pubblica” delle perdite private e nella privatizzazione di ciò che è comune la sua motivazione, la finanziarizzazione dell’economia, che si caratterizza per il ruolo delle banche e dei mercati borsistici come modalità di finanziamento dell’economia e un lavoro nel quale il disciplinamento dell’intera vita è il fulcro dello sfruttamento, dell’estrazione di plusvalore, sono processi lunghi, hanno una storia e una memoria precisa, segnata. Se vogliamo comprendere cosa si celi dietro il Piano Marchionne su Pomigliano e Mirafiori, dobbiamo seguirli, passo passo, nelle loro concatenazioni di cause ed effetto, che si dislocano nel tempo e attraversano piani locali e globali in un continuo e progressivo modificarsi del contesto.

Nel processo di globalizzazione è il modello sociale degli Stati Uniti - oggi condizionato in termini capitalistici dallo strapotere cinese - l’orizzonte proposto e imposto come modello universale, non più soggetto a vincoli esterni, un tempo rappresentati dall’Unione Sovietica, né a vincoli sociali interni, dalle libertà sindacali fino al diritto di sciopero.

 

Il plusvalore del lavoro-vita

Il divario spaventosamente aumentato tra i profitti manageriali e lo stipendio medio di un operaio, ha delle ragioni precise: il disinvestimento continuo nella quota di capitale costante e capitale variabile, cioè beni e salari, che si coniuga con il crescente investimento borsistico che punta alla rendita finanziaria. I salari, in quanto capitale variabile, sono compressi e anch’essi, come il risparmio dei lavoratori, sono risucchiati dal reinvestimento su scala finanziaria: è il motivo per il quale oggi la quasi totalità di un salario è destinata ad pagare rate, affitto, mutui, prestiti, polizze assicurative integrative. E’ in questo modo che l’idea di salario, diretto e indiretto, contemporanea, non coincide con quella che abbiamo conosciuto nell’epoca del welfare state: il salario è spinto a diventare, in parte, anch’esso rendita, come i profitti.

La sua composizione reale è quindi formata da un minimo, sempre più basso, che deve accompagnarsi a un’altra quota variabile legata all’estrema disponibilità a straordinari, turni e innalzamento dei ritmi. Il risultato è un doppio inganno imposto come “salario della miseria”, da un lato e, dall’altro, integrato con l’obbligo di “partecipazione” all’andamento dei mercati borsistici, le famose “azioni ai dipendenti”, e obbligato ad alimentare il debito che ogni lavoratore è costretto a contrarre per vivere.

La finanziarizzazione si badi bene, non è scelta soggettiva nella crisi. E’ la forma della produzione e accumulazione capitalistica contemporanea. Non esiste un capitale “buono” che è quello che si esprime nell’economia delle merci, e uno cattivo che specula. L’intreccio tra capitale finanziario e capitale industriale è inscindibile al punto tale che lo stesso conflitto di interessi è assolutamente pervasivo nell’insieme del sistema delle imprese, bancario, assicurativo, fondi di investimento e fondi pensione.

La finanziarizzazione è il sistema per catturare il plusvalore del lavoro-vita, che non ha un luogo unico, la fabbrica o la scuola, le software house o le catene di supermercati, per formarsi. Il plusvalore è dove si esprime il lavoro e la vita nel suo complesso, e proprio i dispositivi finanziari corrono e la inseguono, entrano dentro ogni singola esistenza e la catturano ipotecandone il percorso per lunghissimo tempo. Gli operai della Fiat, o gli intermittenti dello spettacolo, o ancora gli studenti e i ricercatori, gli impiegati del pubblico, non sono la stessa cosa ma sono in questo senso, accomunati da una traiettoria che porta i loro salari a convergere verso una sorta di salario minimo di sussitenza imposto dal capitale, per la creazione di una figura che potremmo chiamare working poor, poveri produttivi, minacciati costantemente dalla miseria e costretti ad imbrigliarsi, volenti o nolenti, con la finanza.

 

La “pistola puntata sulla tempia”

Salta agli occhi, per dirla con Marchionne, il “modello americano”: gli operai della Chrysler obbligati a possedere azioni (il 63%) dell’azienda fino a divenirne azionisti di maggioranza, e tutto questo per impedire il dissolvimento di pensioni e assicurazioni sanitarie. Il salario, diverso da lavoratore a lavoratore a parità di mansioni, sembra un “rimborso”, utile a coprire le spese di viaggio da casa alla fabbrica. Questa sorta di salario come reddito (al) minimo per altre tipologie di lavoro è già funzionante: che dire degli stagisti, dei collaboratori a progetto, dei precari ed intermittenti collocati al lavoro con contratti delle cooperative o interinali?

Il minimo salariale, dentro al processo di ridefinizione delle relazioni industriali e contrattualistiche, è deciso di volta in volta, da luogo a luogo e la tendenza è quella a personalizzarlo, a cucirlo addosso ad ogni singola persona, a seconda delle sue caratteristiche e peculiarità: se si è donna si potrebbe restare incinta e quindi anche le qualifiche e le tipologie contrattuali cambiano, in favore del padrone e della sua libertà di disporre del licenziamento o della dequalificazione come arma di ricatto. Proprio la dequalificazione delle figure produttive è inversamente proporzionale alla quantità di cervello e di tempo, di attitudini e relazioni che ognuno oggi mette in gioco, che sia in catena di montaggio o in una catena di fast-food.

Il lavoro “immateriale”, possiamo oggi ben dirlo, è un’idea sbagliata: le merci possono essere materiali e immateriali, non il lavoro. E comunque qual è oggi la merce che può essere considerata solo “materiale”, con tutto il livello di saperi collettivi che è stato necessario ricombinare per produrla, o solo “immateriale”, con il carico di fatica e alienazione che gli sta dietro? Il lavoro dentro Mirafiori è anche lavoro cognitivo, e quello dentro l’università anche maledettamente materiale.

Il tempo di lavoro sempre più pervasivo della vita di ognuno perché totalmente soggetto ad un assoluto ed unilaterale comando da parte del capitale. Anche questo ci dice la vicenda Fiat. Si vuole ottenere il controllo sulla dirompente potenziale “indipendenza” dai manager, dal padrone della rendita e delle azioni di chi produce grazie alla sua vita e ai legami di cooperazione con tante altre vite; la soluzione è ridurlo in uno stato di povertà funzionale, perennemente sotto ricatto, con la “pistola puntata alla tempia” come per il famoso referendum torinese.

 

Il tema di un nuovo welfare

Il workfare state, che sta sostituendo progressivamente il welfare state, si colloca dunque all’interno di un fenomeno che risulta, nonostante la propaganda padronale assimili la crisi ad una mancanza di risorse, ormai chiaramente disvelato: ad un aumento generale della ricchezza prodotta, corrisponde un allargamento senza precedenti della povertà. Il tema della redistribuzione della ricchezza è in generale dunque, il tema di un nuovo welfare.

Se questo è vero, la compressione del salario è direttamente proporzionale all’espansione dei dividendi di manager e azionisti. Ma non solo. Nei giorni della campagna mediatico-politica per l’imposizione dell’accordo Marchionne agli operai di Mirafiori, le quotazioni di borsa dei nuovi titoli Fiat “NewCo”, schizzavano verso l’alto alla loro prima uscita. Mentre I dati sulla produzione industriale di auto, impietosamente, ci consegnavano la fotografia di un’azienda più in perdita di tutte le altre.

Risulta quindi evidente che il vero “lavoro” di Marchionne, quello per il quale viene pagato, è produrre dividendi ai grandi azionisti e non auto. I quali, con i loro interessi e i loro obiettivi, finanziano in parte le nuove operazioni, a prescindere e assolutamente oltre qualsiasi specifico piano industriale. Le figure dunque che un tempo avremmo classificato come capitalisti investitori e rentier, tendono a fondersi e affidano al manager il compito di far fruttare la “proprietà”.

Ma che cosa è la proprietà in questo caso? La voglia, rapace, di “appropriarsi” capitalistica, insiste oggi su ciò che è comune. Non solo dunque sui beni comuni “naturali”, ma sull’insieme delle vite delle persone. Non ha più molto senso oggi contrapporre la richiesta di aumenti di salario a quella per l’ottenimento di un reddito garantito al di là della contrattualizzazione.

Le lotte sul salario possono esprimersi nella difesa del contratto nazionale, perché è attraverso la sua dismissione che il salario può essere compresso e quindi “costruire” la figura del “povero produttivo indebitato” necessaria a far girare la “macchina”.

Allo stesso tempo, la collocazione fuori dalla fabbrica, dentro il consumo e l’acquisto di beni e servizi in una crescente e progressiva collocazione di questi ultimi nel valore di scambio e contro il loro valore d’uso, dell’estrazione di plusvalore, impone una riflessione sulla tematica del reddito sociale come tremendamente attuale. Senza confonderlo con il “salario della miseria”, che è già previsto attraverso l’introduzione di miriadi di tipologie contrattuali con garanzie e diritti ridotti a zero. Le lotte di questi mesi, compresa la resistenza operaia di Pomigliano e Mirafiori, ci segnalano che chi lavora e produce, dall’Università alle fabbriche, sta resistendo all’idea di diventare un povero produttivo espropriato della sua possibilità di “fare senza” chi specula, chi vive non dell’investimento produttivo nel capitale fisso e variabile, ma di dividendi di operazioni speculative e finanziarie.

Anche la controriforma Gelmini ci parla di questo: dietro la propaganda del “merito”, vi è in realtà la volontà di smantellare e comprimere il più possibile gli investimenti pubblici sulla formazione e la ricerca. Le famiglie dovranno contrarre un mutuo per mandare I figli a studiare, nelle intenzioni degli “innovatori”, e I figli, operai della ricerca e della formazione, dovranno diventare anch’essi “poveri produttivi”, collocati sul mercato dopo il processo di dequalificazione della loro professionalità e quindi pronti a lavori di ogni tipo e con bassissimi salari.

Lo striscione della Fiom appeso davanti ai cancelli di Mirafiori “Fiat:1200 euro schiavi in mano” è una perfetta sintesi di tutto ciò. Il rovesciamento della crisi, e del suo uso politico, e a questo proposito è utile rileggere Shock economy di N. Klein, passa attraverso una riappropriazione dei diritti di decisione su ciò che è comune.

 

Quello che vogliamo

Il lavoro e la produzione di ricchezza, sono un bene comune, perché non esistono senza la cooperazione generale. Al workfare bisogna quindi contrapporre un nuovo welfare, che ha nella ribellione e nelle rivendicazioni dei working poor un potente riferimento.

Lottare per l’acqua come bene comune, per impedire la privatizzazione dei saperi e dell’accesso allo studio, per dirottare la spesa pubblica su ciò che è un’investimento comune e non per alimentare ciò che privatizza il comune, trasformare in valore d’uso ciò che è oggi consegnato al valore di scambio come beni e servizi utili a tutti, lottare per un’alternativa energetica che diffonda i produttori e non crei il monopolio della produzione di energia come impongono. I modelli basati sulle fonti non rinnovabili o sul nucleare, può cominciare a descrivere un orizzonte comune. Le resistenze ai processi ristrutturativi, dalla Fiat all’Università, non possono però che essere la precondizione. Sono quegli spazi temporali nei quali far vivere nuovi obiettivi, capaci di andare oltre l’esistente.

Vi è in questi mesi un dibattito pubblico sul “futuro” molto interessante: l’uso politico del “futuro” da parte capitalistica sembra in qualche modo poco aggressivo, complice la materialità della realtà che anche con la “pistola puntata alla tempia” ti fa dire di “no”. Bisognerebbe che noi approfittassimo di questa debolezza di prefigurazione, di produzione di immaginario che i “padroni” accusano. Più che parlare di un futuro che non c’è, dovremmo già mettere dentro un piede a quello che vogliamo, scavalcando il muro eretto per impedirci di raggiungerlo. Partendo intanto dal fatto molto semplice che la ricchezza prodotta da tutti è aumentata, e quindi non vi è alcuna giustificazione al fatto che siamo più poveri. E che chi guadagna milioni di euro al mese sta rubando ciò che è comune.