Carlo Freccero - Democrazia e televisione. La bolla della maggioranza

alternative per il socialismo n. 18 ottobre-novembre 2011

 

 


 

 

Raoul Vaneigem apre il suo Trattato di saper vivere[1] descrivendo una scena a cui abbiamo assistito infinite volte nella proiezione di cartoni animati. Quando un personaggio inavvertitamente lascia la terraferma per avventurarsi nel vuoto, non cade immediatamente, ma rimane sospeso per aria, impegnato nell’azione che stava compiendo, per tutto il tempo necessario ad accorgersi del suo stato. Solo quando ne è consapevole, viene colto dal panico e cade rovinosamente.

Questo stato di sospensione, di immobilizzazione sul baratro, è tipico di tutte le rotture epistemologiche. Un periodo volge al termine, ancora non sappiamo quali nuove epistemi guideranno le nostre scelte e le nostre azioni e restiamo così, attaccati alle regole precedenti, alle idee e alle logiche del nostro passato prossimo, muovendoci, anche idealmente in uno scenario che non c’è più, che si è sgretolato sotto i nostri piedi.

Oggi viviamo una di quelle fasi: celebriamo la fine di una visione del mondo che ha avuto inizio nei primi anni ’80 e che ci ha accompagnato per trent’anni con denominazioni diverse: postmoderno, immateriale, pensiero debole in filosofia; neoliberismo, pensiero unico, finanziarizzazione in economia; edonismo reaganiano, berlusconismo, consumismo come stile di vita.

Questa fase ha visto in tutto il mondo un arretramento delle sinistre che, quando hanno voluto sopravvivere, almeno in forme moderate e marginali, hanno dovuto far proprie le regole del pensiero unico, per ripresentarsi nella versione ibrida della famosa terza via, condivisa da Blair e da Clinton.

Che ruolo ha avuto la televisione in tutto questo? Un ruolo essenziale perché la televisione ha rappresentato in questo trentennio il medium più diffuso. Se condividiamo le teorie di Mc Luhan che identificano il messaggio con il medium dobbiamo ipotizzare che la televisione abbia imposto le sue regole anche alle altre sfere della società come la politica, il mercato, la stessa organizzazione del pensiero, così come la stampa aveva creato l’uomo tipografico([2]).

Se più modestamente condividiamo la definizione di televisione di Serge Daney come «inconscio a cielo aperto della società»([3]), dobbiamo pensare che la televisione abbia registrato con la sua evoluzione, l’evoluzione di una società e di un mercato che si distaccavano dal realismo della prima rivoluzione industriale, per trasformarsi in puro spettacolo, produzione di immateriale e di ricchezza virtuale.

All’inizio degli anni ’80 c’è una serie di eventi apparentemente eterogenei, che vanno però nella stessa direzione: la direzione dello spettacolo e dei consumi, il progressivo svuotamento dei contenuti pesanti, materiali, reali, a favore di una realtà immateriale, virtuale, spettacolare.

 

Prima di tutto inizia la finanziarizzazione dell’economia

Esistono per le imprese due possibili fonti di finanziamento: le banche e il mercato, come possibile collocamento in borsa delle azioni. Cristian Marazzi ne Il comunismo del capitale scrive: «Per la prima volta quel duopolio tra modello anglosassone, basato sulla finanza a modello renano, sul finanziamento bancario, tipicamente tedesco, ma anche francese e italiano, viene fortemente sbilanciato a favore del modello anglosassone»([4]).

Nel ’79 in seguito ad una brusca impennata dei tassi d’interesse, questo secondo modello inizia a prevalere ed il capitalismo cambia completamente di segno. Scopo dell’azienda, di qualunque azienda, non è più produrre beni materiali, ma valore di mercato, in modo da remunerare in tempi brevi gli azionisti del loro investimento. Non si investe più nelle macchine e nel lavoro, per incrementare e razionalizzare la produzione.

Al contrario, visto che si è alla ricerca di un valore non sostanziale, ma borsistico, si usano i tagli all’occupazione per incrementare il valore di mercato delle aziende. La ricerca di un guadagno slegato dalla produzione, porta a comprimere i salari per realizzare profitti, in controtendenza con il periodo fordista dell’economia, in cui gli alti salari promuovevano i consumi. Per permettere ai lavoratori di continuare a consumare, nonostante la riduzione reale dei salari, si ricorre ad alcuni stratagemmi rivelatisi poi alla base della crisi di oggi. Se i salari non possono aumentare si comprimono i prezzi delle merci, importando dalla Cina e da altri paesi, prodotti a prezzi stracciati.

È il periodo della «Wallmartizzazione sociale»([5]). Ogni nuovo punto vendita Wall Mart impone merci concorrenziali sul piano dei prezzi e porta sul territorio circostante alla chiusura dei negozi tradizionali.

Nello stesso tempo la politica di bassi salari dell’azienda, crea un circolo al ribasso delle retribuzioni locali. Ma non basta comprimere prezzi e salari per garantire il consumo necessario alla sopravvivenza del mercato. La strada maestra, quella che ha portato all’esplosione della crisi attuale, è quella dell’indebitamento.

Le famiglie si indebitano e pagano a rate tutti i generi di consumo, dalla casa, alla macchina, all’arredamento. La vita si trasforma in lavoro coatto per onorare il debito; la perdita del lavoro diventa quindi una catastrofe globale, con la perdita della casa, della macchina, di tutto. E dato che i fondi pensione sono privati e aziendali, può significare anche la perdita della previdenza.

Il meccanismo del debito e dell’indebitamento è alla base del disastro di oggi, ne è in qualche modo la causa. Ma come nota Robert B. Reich nel saggio The next economy and America’s future([6]), il debito prima di essere causa è effetto di una procedura politica di riduzione dei salari e di allargamento della forbice della disuguaglianza sociale.

Se studiamo comparativamente la crisi attuale e la crisi del ’29, si vedrà che anche allora il detonatore del mercato fu costituito dalle eccessive differenze sociali, per cui un aumento di ricchezza in mano di pochi non significava affatto benessere diffuso e condivisione dei consumi.

Con la perdita della centralità della produzione, il lavoro cessa di essere un fattore di identità e di identificazione per diventare puro strumento di sopravvivenza. Ma agli inizi degli anni ’80 la crisi è ancora lontana e il consumo sembra alla portata di tutti. Così come la ricerca del successo privato sostituisce la coscienza di classe.

Sempre alla fine degli anni settanta, e precisamente nel ’77, esce nelle sale cinematografiche il film La febbre del sabato sera di cui ho celebrato l’anniversario su Rai4, come evento simbolo di un’epoca. Tony Manero, il protagonista, è commesso in un negozio di vernici, ha una vita piatta e modesta, priva di stimoli e di soddisfazioni, ma al sabato diventa il re della discoteca dove si esibisce ballando, vive, anche se a livello locale e marginale, il suo quarto d’ora di celebrità.

Tony Manero è oggettivamente un proletario, ma non pensa alla rivoluzione e neanche al suo successo lavorativo. Non ha coscienza di classe, ma non è neanche ambizioso, trova la sua dimensione nello spettacolo, nel divertimento come spazio virtuale, vita parallela, videogame. Nel film successivo farà del suo hobby la sua professione, secondo quella logica televisiva per cui la promozione sociale non passa dal capitale culturale, dagli studi, ma dalla visibilità attraverso l’esibizione. Ho detto che la televisione è il medium di quegli anni.

 

Nei primi anni ’80 nasce in Italia il primo network commerciale

Sono gli anni della Milano da Bere, del prêt-à-porter, della pubblicità. Il consumo si sposta dai consumi primari, dal valore d’uso, a un consumo puramente simbolico in cui è la firma, il brand, a conferire valore. La pubblicità è la fabbrica dei nuovi bisogni simbolici e la televisione diventa il teatro privilegiato della pubblicità e dei consumi. Nuovi modelli di vita si impongono. Sempre più la pubblicità, la propaganda, diventano il fulcro della vita politica. Ed il teatro naturale della pubblicità è la televisione.

Ho descritto in diverse occasioni([7]) questo passaggio nell’opinione pubblica da un concetto di verità a un concetto di “maggioranza” come valore, che qui cercherò di riassumere schematicamente.

Il funzionamento della macchina elettorale dagli anni ’80 a oggi è, per motivi diversi, paragonabile alle tecniche di rilevazione dell’audience e di programmazione televisiva.

La televisione si è trasformata, dopo l’introduzione delle emittenti commerciali, in un meccanismo per individuare le richieste del pubblico. Ma il meccanismo messo in moto dalle rilevazioni di mercato ha assunto ben presto aspetti ben più vasti e inquietanti, tanto da assoggettare alle sue logiche anche la politica.

Questo processo è passato attraverso una serie di tappe successive. In un primo momento, con l’introduzione della “rivelazione dell’audience”, l’opinione del pubblico è entrata stabilmente a far parte della produzione di un sapere televisivo. È l’audience, di fatto, che seleziona le trasmissioni gradite al pubblico e presiede quindi alla formazione dei palinsesti televisivi. E la televisione ha un ruolo fondamentale nella formazione dell’opinione pubblica.

In un secondo momento, tramite il legame che la televisione commerciale ha istituito tra la pubblicità e la televisione, il marketing è entrato massicciamente a far parte della programmazione televisiva. È il marketing che studia le fasce di pubblico che il messaggio televisivo dovrà raggiungere e dà quindi indicazioni dettagliate sui requisiti dei programmi.

La televisione si è trasformata sempre di più da macchina di consumi intellettuali (la Rai delle origini) a una macchina di consumi materiali. Da questa evoluzione o involuzione non è immune neppure la Rai, dopo che si è attribuito al servizio pubblico il valore materiale di un’azienda da privatizzare. E la prevalenza dei valori del consumo materiale ha già un peso politico. L’ultima tappa di questo processo porta a una rivalutazione del concetto di democrazia diretta e a una deriva populista.

Introducendo l’uso dei sondaggi per commentare e valutare problemi di importanza sociale, le trasmissioni di attualità politica hanno radicato nell’opinione pubblica l’equazione tra maggioranza e verità.

L’aspetto più inquietante, o comunque curioso, è rappresentato proprio dal fatto che al sondaggio si tende a dare oggi il valore di verità.

Mentre per la società basata sulla verità il sapere è appannaggio di pochi (come ne La Repubblica di Platone), nella sondocrazia il sapere e il potere coincidono con la maggioranza. Per la prima volta la verità e il potere sono stati espressi in termini quantitativi anziché qualitativi.

Termini come teledemocrazia e videocrazia, apparentemente in contrasto tra loro, esprimono un unico concetto. Nell’era del video si realizza la dittatura della maggioranza. Si tratta di una democrazia, o potere popolare, filtrato attraverso il video.

Ma si tratta altresì di un potere che in nome della maggioranza rifiuta qualsiasi tipo di limitazione o controllo, mentre noi sappiamo che la democrazia moderna si fonda proprio sulla limitazione reciproca dei poteri. La televisione commerciale ha valorizzato la maggioranza portandola prima alla ribalta del piccolo schermo attraverso i talk show, poi alla ribalta della politica attraverso il populismo. Dalla politica ai consumi l’interlocutore unico è stato per l’ultimo trentennio la maggioranza.

 

Le basi minate della democrazia

La maggioranza è stata la verità della nostra epoca e l’audience ne è stata la matrice. La maggioranza televisiva non ha bisogno, per formarsi, neppure di argomenti definiti. Da tempo assistiamo ad una crisi del concetto tradizionale di informazione, a favore di un concetto popolare di infotainment. Oggi consenso e visibilità tendono sempre più a coincidere, anche in assenza di contenuto.

Come si è detto il funzionamento della macchina elettorale maggioritaria è per molti versi paragonabile alle tecniche di rilevazione dell’audience e di programmazione televisiva. Ciò ha portato a una serie di conseguenze che minano le basi stesse del mito democratico.

La democrazia è per definizione il governo del popolo. Nell’immaginazione collettiva perché questa sovranità si realizzi compiutamente, devono essere rispettate alcune regole. Appare oggi in ribasso la definizione moderna di democrazia come separazione e autolimitazione di poteri. Questo modello di democrazia, tuttora almeno formalmente in vigore, privilegia la difesa della minoranza e ne tutela i diritti.

Oggi invece democrazia è nell’immaginario popolare sinonimo di maggioranza. E il consenso della maggioranza si ottiene padroneggiando le tecniche della comunicazione non tanto per imporre contenuto, quanto per guadagnare visibilità. Nell’epoca della maggioranza, essere in minoranza può condurre all’afasia.

Ma, ferma all’equazione struttura/sovrastruttura, la sinistra si disinteressa di tutti i fenomeni sovrastrutturali. Soprattutto della comunicazione. Ed è rimasta in questi anni legata a un progetto politico basato su temi concreti, programma, contenuti, mentre la politica diventava spettacolo ed espressione della maggioranza.

Il progetto marxista classico è pedagogico. Bisogna fare appello all’intelligenza dei lavoratori, alla coscienza di classe. Ma la coscienza di classe è stata sostituita dalla maggioranza.

Ed anche il mito della moltitudine([8]), come insieme di differenze, è stato in questi anni più virtuale che reale, di fronte al pensiero unico e condiviso.

Oggi questo modello è in crisi. Il crollo della Borsa esprime la natura fittizia di quelle ferree regole del pensiero unico che guardavano al mercato come luogo di autoregolamentazione e di equilibrio. Non solo. La crisi dei mercati, e mi sembra che nessuno sino ad ora abbia sottolineato sufficientemente il problema, denunzia l’irrazionalità di un mercato in cui gli investimenti non sono fatti in base a ragionamenti di carattere razionale e sostanziale, i famosi fondamentali, ma in base ad oscillazioni puramente quantitative degli indici, che guidati dalle pulsioni irrazionali del mercato, innescano un ciclo enormemente amplificato di acquisti o di vendite.

Il pensiero debole([9]), tipico della fase postmoderna che ci stiamo lasciando alle spalle, non si è mostrato più idoneo a difenderci dal potere, di quanto lo fossero le forme di sapere precedenti.

(Già è previsto un congresso filosofico per il prossimo anno a Bonn sulla riscoperta del New Realism).

Soprattutto mostra la corda il modello fittizio di democrazia diretta, basata sul sondaggio su cui Berlusconi aveva edificato, nell’ultimo ventennio, il suo populismo mediatico. Le rivolte spontanee sul territorio degli studenti, dei comitati anti-Tav, dei precari, indicano uno stato di insoddisfazione diffuso, inconciliabile con l’utopia berlusconiana del consumismo per tutti, del benessere generalizzato.

Gli eventi stanno falsificando, in senso popperiano, le regole del gioco liberista: le tasse dovevano ridursi e stanno diventando invece insostenibili. La tutela del capitale, messa in atto da parte degli Stati, dalle fabbriche alle banche, non ha prodotto occupazione e benessere, ma solo speculazione.

In una delle sue prime campagne politiche Berlusconi rappresentava il comunismo come una landa deserta, un inferno in cui il cittadino viene privato dell’unico vero valore di questi anni: il consumo.

Oggi quella landa deserta assomiglia piuttosto alla crisi che stiamo vivendo e il neoliberalismo sta implodendo come, negli anni ’80, il muro di Berlino.

 

I due modelli di sinistra sono entrambi perdenti

In questo quadro desolante dovrebbe esserci più spazio per una ripresa della sinistra, ma non sembra sia così, almeno per quanto riguarda la sinistra ufficiale. Zapatero, l’unico governo di sinistra in un paese europeo di una certa importanza, ha manifestato la sua idea di non candidarsi. L’America si dichiara delusa da Obama e dalla sua impotenza di fronte alla crisi. In realtà i partiti democratici, in questi anni, hanno perseguito con molto maggior rigore delle destre gli imperativi del pensiero unico, senza concessioni al populismo o al capitalismo caritatevole con cui le destre hanno cercato di mitigare la durezza del mercato. Oggi la sinistra non ha un programma, non ha un’ideologia propria.

C’è in realtà una forte ripresa degli studi su Marx e sul comunismo([10]), ma, secondo me, senza una sufficiente analisi della situazione presente. Esistono cioè due modelli di sinistra entrambi perdenti: una sinistra moderata che ha fatto proprie le analisi del pensiero unico neoliberista e conserva dal pensiero tradizionale della sinistra solo l’imperativo dalla dipendenza della sovrastruttura dalla struttura economica. È una sinistra che in questi anni ha abbracciato le logiche neoliberiste con maggior convinzione e rigore dei governi di destra.

Esiste poi una sinistra “ortodossa” che continua a riconoscersi nel credo marxiano, ma utilizza le analisi e gli strumenti del marxismo senza ritenere di doverli adeguare al tempo presente. Non si interessa quindi di fenomeni sovrastrutturali come la comunicazione, e per questo motivo è quasi totalmente scomparsa nelle rappresentanze parlamentari.

Marx concentra le sue analisi sui meccanismi economici della prima rivoluzione industriale. Ma esistono autori, come Debord([11]), che, partendo dal pensiero marxiano, hanno saputo sviluppare un’analisi convincente e per certi versi profetica di quella società dello spettacolo che ci siamo appena lasciati alle spalle. Ci sono alcuni postulati, in particolare l’attenzione ossessiva alla sola sfera economica e al realismo per cui solo i bisogni primari sono degni di attenzione, che hanno impedito alla sinistra di aggiornare il suo messaggio all’epoca da cui stiamo uscendo.

Oggi assistiamo all’esplosione della bolla dell’immateriale e al recupero del realismo nella sua forma neorealista. Diceva Andy Warhol che chi ha avuto successo una volta ed è in grado di conservarsi nel tempo fedele alla sua identità, prima o poi avrà modo di tornare di moda.

Nell’epoca dell’immateriale la sinistra ha conservato un realismo da prima rivoluzione industriale che potrebbe rivelarsi oggi più operativo e convincente di altre forme di analisi. Forse la sinistra sta per tornare di moda. Ma nel trentennio che ci siamo lasciati alle spalle ha ostinatamente rifiutato di accettare i cambiamenti della postmodernità. Voglio dire che la sinistra rischia oggi di essere attuale, perché si è conservata ostinatamente anacronistica nel suo recente passato. E questo non è un complimento.

Oggi assistiamo a un ennesimo mutamento mediatico, il passaggio della televisione generalista al discorso tematico delle televisioni satellitari e la partecipazione attiva del pubblico a internet, dopo la passività che ha contraddistinto la maggioranza televisiva.

Tutti sono concordi nell’attribuire alla comunicazione tramite social network un ruolo fondamentale di coordinamento in tutte le recenti rivolte del mondo arabo, negli stessi movimenti di rivolta italiani e nella vittoria recente dei referendum. A livello politico permette aggregazioni tra diversi, su progetti specifici condivisi. Gli Indignados spagnoli sono sia di destra che di sinistra. La convergenza avviene su un progetto comune. Lo stesso vale per molte battaglie recenti vinte su scopi specifici: la mobilitazione delle donne, la vittoria sui referendum, la difesa dei beni comuni.

Questo cambiamento è interessante soprattutto perché segna, almeno come tendenza di fondo, l’uscita dalla dittatura della maggioranza e la possibile realizzazione di un ideale di moltitudine come progetto possibile. Stiamo uscendo dalla logica del sondaggio, come modello quantitativo di verità e di intervento operativo, per entrare in una logica, anche produttiva, che permette anche alla singolarità di trasformarsi in grandi numeri. Oggi, con programmi computerizzati, le aziende possono produrre anche su scala industriale prodotti personalizzati. La gestione personalizzata, su domanda, della produzione, permette di evitare o ridurre magazzini, immobilizzi, invenduto.

Se vuole riacquistare un peso politico la sinistra deve, a mio parere, concentrare la sua analisi sui cambiamenti in atto, mettersi al lavoro sui nuovi contenuti, utilizzare il marxismo come metodo idoneo anche a spiegare materiali nuovi. È quello che ha fatto Debord ed è quanto farebbe Marx oggi.

Soprattutto deve partire da una constatazione: l’identificazione della maggioranza come unico criterio operativo in campo politico, economico e comunicativo, si è rivelata un moltiplicatore delle tendenze di mercato, politiche e ideologiche, atto a produrre bolle di sempre maggiori dimensioni. I sondaggi in politica, l’audience in televisione e nell’industria culturale, i programmi computerizzati in borsa, hanno fatto delle scelte della maggioranza un diktat indiscutibile, irrazionale e dagli esiti catastrofici.

 

 


 

[1] Raoul Vaneigem, Traité de savoir vivre à l’usage des jeunes générations, Gallimard, 1967 - Trattato di saper vivere ad uso delle giovani generazioni, Vallecchi, Firenze, 1973.

[2] Marshall Mc Luhan, La Galassia Gutenberg. Nascita dell’uomo tipografico, Armando, Roma, 1976 (1962); Marshall Mc Luhan-Quentin Fiore, Il medium è il messaggio, Feltrinelli, Milano, 1968 (1967).

[3] «La televisione [...] si colloca nel lavorio a cielo aperto dell’inconscio della società» p. 145 in Serge Daney, Lo sguardo ostinato. Riflessioni di un cinefilo, Editrice Il Castoro, Milano, 1995 (1994).

[4] Cristian Marazzi, Il comunismo del capitale, Ombre Corte, Verona, 2001 p. 30.

[5] Charles Fishman, Effetto Wal‑Mart. Il costo nascosto della convenienza, Egea, Milano, 2006.

[6] Robert B. Reich, Atterschock. The next economy and America’s future, Alfred Aknopt, New York, 2010.

[7] Carlo Freccero, Savoir et pouvoir à l’ère de la vidéo in Magazine littéraire, Foucault aujourd’hui, ottobre 1994, n. 325, Paris; Carlo Freccero, L’audience come periferia in A. Grasso-M. Scaglioni, Che cos’è la televisione, Garzanti, Milano, 2003.

[8] "termine moltitudine" ha origine nel pensiero del ‘600, padri del termine "moltitudine" sono T. Hobbes e B. Spinoza. Per Hobbes la parola ha una sfumatura negativa e designa lo stato di natura antecedente al contratto sociale, quando vige la regola dell’homo hominis lupus. In seguito al contratto, la moltitudine si trasforma in un popolo, cioè in un uno.

Al contrario per Spinoza moltitudine indica una pluralità che persiste senza confluire in un uno indistinto e, come tale, rappresenta la struttura portante della società civile. Il termine è stato ripreso, con opportuni aggiornamenti, da P. Virno in Grammatica della moltitudine. Per un'analisi delle forme di vita contemporanee, DeriveApprodi, 2003 e da Tony Negri e Michael Hardt, Moltitudine, guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale, Milano, Rizzoli, 2004.

[9] AA.VV., Il pensiero debole a cura di G. Vattimo e P.A. Rovatti, Feltrinelli, Milano, 1983.

[10] AA.VV., L’idea di comunismo, a cura di C. Douzinas e S. Zizek, DeriveApprodi, Roma, 2011.

[11] Guy Debord, La società dello spettacolo, Dalai Editore, Milano, 2001, prefazione di C. Freccero e D. Strumia.