Giulio Sapelli - Poliarchia, impresa, stati e globalità. L’illusione democratica

alternative per il socialismo n. 22 - luglio - agosto 2012

 

Una delle storiche caratteristiche dell’evoluzione della poliarchia moderna è stata ed è quella del suo rapporto con gli stati nazionali e i poteri situazionali di fatto nazionali e internazionali.

Lo stato e l’impresa moderni sono due forme eterogenee della differenziazione sociale, con ben diversi fini e assai diverse morfologie. Tuttavia, per un non breve periodo, sono coevolute insieme.

L’impresa, che è sempre la fonte ultima dei poteri situazionali di fatto, con il suo svilupparsi, si è pienamente rivelata essere una distintiva specie di Vereinigung, ossia di associazione volontaria dal fine specifico: il raggiungimento di un sovrappiù finanziario mediante la creazione di nuovi prodotti e servizi offerti al mercato e alla società. Essa si differenzia dalle medioevali Einigung (unioni che inserivano la persona in un contesto di relazioni caratterizzato dal totale controllo sociale sulle sue transazioni) per il fatto che l’associazione-impresa non soltanto si presenta sotto forma volontaria nella reificazione capitalistica, ma consente alle persone che la costituiscono, quale che sia il grado di potere che in essa esercitano o a cui sono sottoposte, di non essere da tale associazione totalmente condizionate: gli attori rimangono liberi di stringere altri legami associativi e di far parte di altre reti o cerchie sociali.

L’impresa ha reso evidente questa sua libertà di azione, dei suoi soggetti e di sé medesima, in primis nei confronti dello stato, costituendosi spesso oltre gli stessi confini di quest’ultimo, secondo i dettati di quella “libertà dei moderni” che la costituisce nella sua essenza.

Lo stato è unità di popolo capace di agire. Esso si pone in interrelazione con la molteplicità degli interessi privati che costituiscono la società, perché stato e società son sempre collegati dallo stesso substrato umano sociale.

In Europa, in Asia e in Sudamerica lo stato moderno si è - in tempi non sincronici - costruito dapprima in contrapposizione con la costituzione gerarchica medioeval-feudale, burocratico-imperiale e coloniale e poi - nella sua potenza di monopolio della forza - nel contesto del sistema degli stati nazionali e degli imperi. In seguito esso è divenuto elemento di sostegno essenziale del capitalismo che si realizza nella formazione economico sociale incentrata nello scambio di mercato e nell’impresa radicata nella mira del profitto e fondata sul coordinamento delle risorse della proprietà, del controllo, della tecnologia, dei capitali e delle relazioni contrattuali e sociali del lavoro.

In Europa, in Asia e nel Sudamerica, con gradi e forme assai diverse, il capitalismo è più fondato sull’impresa che sul mercato dispiegato.

Negli Usa esso, invece, è fondato tanto sul mercato dispiegato quanto sull’impresa e lo stato si è costituito sin da subito come sostegno del capitalismo a tale mercato dispiegato.

 

La coevoluzione tra stato e capitalismo

Il capitalismo, in ogni dove, non è stato forgiato dallo stato, ma si è sviluppato contestualmente a esso, in un processo di coevoluzione. Questa coevoluzione segna i confini mobili tra esercizio del potere di rappresentanza territoriale, dai più inteso come democrazia ossia potere territoriale elettivo nello scherno dell’essere degli elettori che sempre si illudono d’esser loro a scegliere gli eletti e non viceversa, come in realtà da sempre accade.

A partire dall’epoca dei protezionismi economici con cui inizia, nella seconda metà dell’Ottocento, il diffondersi della costruzione degli stati nazionali capitalistici, questi ultimi sono divenuti regolati dal capitalismo medesimo in una serie di continue interrelazioni. Esse sono quelle realizzate dallo stato di diritto e dalle costituzioni liberali che fanno dello stato non solo il detentore del monopolio della forza, ma anche il custode dell’ordine legale, struttura di difesa delle pretese giuridiche soggettive dei cittadini, contemporaneamente al riconoscimento e alla protezione dei diritti pubblici soggettivi.

Il nesso che questo stato istituisce con la società non è soltanto costituito dalla società politica, che giungerà sino a mutarne le forme da stato liberale a stato sociale. Con l’estensione tanto del suffragio quanto dei diritti di cittadinanza, tale nesso si costituisce anche tramite la società economica, che s’interrela con lo stato innescando un rapporto tra rappresentanza parlamentare dei cittadini e rappresentanza funzionale degli interessi. Alla responsabilità politica si affianca quella economica delle associazioni a finalità di profitto, che se, da un lato, si sostiene sulla base dell’ordine sociale garantito dallo stato, dall’altro, può entrare in contraddizione con i vincoli collettivistici di cui via via lo stato si fa portatore. Questo accade perché tali vincoli, che promanano dalla società politica che storicamente amplia i diritti di cittadinanza, sono antitetici rispetto alla struttura sociale individualistica che costituisce tanto le forme del mercato più o meno autoregolantesi e la natura della proprietà capitalistica d’impresa.

Tale contraddizione, tuttavia, costituisce un potente antidoto alla disgregazione sociale che può provocarsi in base alla pervasività assoluta della struttura individualistica delle relazioni sociali: è stata questa, in definitiva, l’esperienza storica universale europea dello stato assistenziale o del benessere costruito nel XX secolo.

Solo allorquando lo stato si fa portatore diretto - e non mediato dalla società politica collettivistica - delle esigenze dell’impresa a finalità di profitto, quella contraddizione non si determina e si invera - invece- un sostegno potentissimo alle esigenze di quest’ultima, come accade nei periodi storici permeati da istanze fortemente liberiste, come quelle che pervadono il mondo intero sul finire del XX secolo, dopo il crollo dello stalinismo europeo e gli scossoni che si abbattono sul tronco dell’albero del maoismo asiatico.

Anche lo stato protezionistico, del resto, prima dell’avvento dello stato sociale, aveva, sin dalla seconda metà dell’Ottocento, visto potentemente influenzata la legislazione, l’amministrazione, la politica, dalle esigenze delle grandi imprese. Esso era divenuto una comunità economica d’interessi per il grande valore economico che aveva assunto lo stato nazionale.

Così come l’assolutismo era stata la prima forma dominante dello stato europeo continentale, nello stato liberal-parlamentare il parlamento divenne lo strumento della capacità del capitalismo di far valere i propri interessi nell’agone delle istituzioni e nella società politica tramite il ruolo svolto dalle grandi imprese.

Solo nelle democrazie anglosassoni questa interrelazione tra stato e interessi rappresentati funzionalmente, si costituì come meccanismo poliarchico - e quindi compiutamente liberal-democratico - di trasmissione certo, ma anche di regolazione e compensazione, degli interessi economici, nella riproduzione continua del pluralismo tanto della società politica quanto dei gruppi di interesse.

La poliarchia moderna realizzata, pur con tutte le sue contraddizioni, è tipica soltanto del capitalismo competitivo manageriale di matrice nordamericana, mentre si oscura in quello cooperativo e collusivo europeo continentale. Il capitalismo asiatico, del resto, è ben più collusivo e familistico: in esso qualsivoglia disegno poliarchico scompare, con l’assenza storica che si ha in Asia della società civile hegelianamente intesa, a fronte di un immenso potere esercitato dallo stato e dalle classi dirigenti economiche e politiche e militari.

La questione storica fondamentale che attraverso l’impresa moderna e i poteri situazionali di fatto s’invera è la sempre più decisa rottura, tuttavia, di questa interrelazione tra le forme associative economiche di profitto e gli stati nazionali.

In questo modo il capitalismo, anche nel pieno corso dello stato come comunità d’interessi, ossia dello stato protezionistico, poneva le basi per il superamento dell’intersezione statica tra stato nazionale e impresa. Non è un caso che questa via via sempre più decisa rottura della sovrapposizione si realizzi dapprima negli stati dominati da tradizioni di laissez faire e imperiali coloniali e post-coloniali, come rispettivamente, in ben diverse storiche esperienze, sono il Regno Unito e gli Usa.

La forma storica con la quale questo processo si realizza è l’impresa multinazionale. Essa è una forma di impresa che si presenta come una complessa organizzazione sia dei diritti di proprietà sia delle sue interne gerarchie. I primi possono essere diffusi oltre i confini di un singolo stato e le seconde si costruiscono, generalmente secondo il modello della “M form”, per agire secondo aree geografiche delegando ampi poteri alle gerarchie manageriali e intessendo una fitta rete di partecipazioni azionarie in imprese aventi sede legale in singoli stati nazionali e dipendenti, secondo la logica del gruppo di imprese, da un unico centro internazionale di controllo strategico. L’impresa multinazionale ha dominato e domina le industrie internazionali e ha le sue radici nel mondo precocemente industrializzato, dove ancor oggi si concentrano la stragrande maggioranza dei suoi centri strategici internazionali di controllo.

 

Le prime fasi della crescita mondiale capitalistica

Il primo periodo della crescita mondiale capitalistica, dal 1770 al 1890, vede l’emergere del capitalismo industriale che si fonda sullo sviluppo dell’industria manifatturiera nei più avanzati paesi europei e dell’America del Nord. Le imprese sono in larga misura nazionali e si espandono all’estero per sfruttare mercati particolarmente profittevoli, come ulteriore sviluppo delle compagnie commerciali sorte nel periodo del mercantilismo, tra l’inizio del XVII secolo e la metà del secolo XVII (quando inizia la rivoluzione industriale inglese). Esse forniscono di materie prime quella parte del mondo che va industrializzandosi e che va espandendo i suoi consumi.

Molte imprese conseguono imponenti guadagni con le attività di esportazione all’estero, ma esse fondano generalmente i loro vantaggi competitivi sui monopoli temporanei dell’innovazione tecnologica che realizzano su scala locale. Le attività internazionali sono concentrate piuttosto sulla vendita dei prodotti che sulla produzione in territori diversi da quelli nazionali in cui nasce l’impresa.

Tra il 1890 e il 1945 sorge un capitalismo internazionale che ha alla sua base una forte crescita del ruolo delle banche e delle istituzioni finanziarie, che promuovono o incoraggiano la concentrazione tra le imprese che si realizza non soltanto su scala nazionale, ma anche a livello internazionale per garantire profitti monopolistici ed erigere barriere all’entrata contro nuovi concorrenti potenziali. La concentrazione industriale, la razionalizzazione della produzione, la formazione di cartelli e lo sviluppo della produzione di massa con la standardizzazione dei prodotti e delle tecnologie si affiancano allo sviluppo dei trasporti e delle comunicazioni.

Il coordinamento tra produzione e distribuzione si sviluppa con grande rapidità soprattutto negli Usa e nel Regno Unito, mentre il capitale finanziario diviene lo strumento fondamentale per l’accumulazione del capitale su scala internazionale. La formazione dei cartelli internazionali per la spartizione dei mercati mondiali tra imprese nordamericane e tra imprese tedesche sono l’emblema di questo processo, che raggiunge la sua acme negli anni Trenta, dopo la grande crisi del 1929. Si assiste a un’integrazione verticale delle imprese e a una divisione internazionale del lavoro tra le medesime, che oscura il coordinamento tramite meccanismi di mercato tra imprese indipendenti.

Gli investimenti esteri diretti, ossia rivolti a creare attività in paesi diversi da quello in cui l’impresa ha origine, iniziano significativamente a crescere già a partire dal periodo che va dal 1870 alla prima guerra mondiale, ponendo le basi della crescita multinazionale successiva. Essa si realizza su base manifatturiera inizialmente nei territori coloniali e in quelli ricchi di materie prime, forti della riduzione dei costi di trasporto. Agli investitori esteri tradizionali, le grandi compagnie e imprese del Regno Unito, della Francia e dell’Olanda, si aggiungono prepotentemente in questo periodo quelle nordamericane e tedesche, forti della loro rapidissima innovazione tecnologica e dell’ascesa delle joint stock company. Le imprese nordamericane, del resto, sono quelle che introducono più forti legami tra i loro centri strategici e le filiali estere, in una rete internazionale di strutture divisionalizzate che sono il trionfo della “M form”.

In questo periodo l’impresa multinazionale si sviluppa rapidamente e assume, quindi, il suo moderno volto di impresa che si trasforma da organizzazione dominata da una attività di produzione e di esportazione su base domestica a una attività di produzione e di esportazione su base direttamente internazionale.

 

La nascita del capitalismo globale

Dopo il 1945 si pongono le basi di quello che solo oggi si chiama il “capitalismo globale”, che si articola nella produzione, distribuzione, finanza e commercio d’impresa secondo reti transnazionali che interessano direttamente anche i paesi in corso di industrializzazione e solo più recentemente investiti dalla crescita economica e dallo sviluppo del reddito e della produttività del lavoro: in Asia, nel Pacifico, in alcune aree dell’Africa. Queste reti transnazionali sono costituite dalle imprese multinazionali manifatturiere, bancarie e finanziarie, di servizi, che accumulano capitale su larga scala e si sviluppano più rapidamente di quanto non facciano le imprese nazionali. La liberalizzazione dei mercati dei beni, dei capitali, dei servizi, della forza di lavoro e dei diritti di proprietà, che si invera con forza dopo il crollo dello stalinismo europeo alla fine del decennio ottanta del XX secolo, offre all’impresa multinazionale un’occasione di crescita mondiale sino a oggi inusitata.

A partire dal 1945 le interdipendenze economiche sono il dato sostantivo di un’era che prepara l’avvento dell’egemonia mondiale del capitalismo e dell’impresa nord americana del XXI secolo. Nessuna economia nazionale, dopo la fine della seconda guerra mondiale, può più essere né compresa né regolata isolatamente dal contesto globale. L’accumulazione capitalistica sposta decisamente il suo centro nelle reti internazionali di produzione, di commercio e finanziarie, fondate nei paesi tradizionalmente industrializzati, dell’Oecd e poi di quelli che un tempo si definivano in via di sviluppo e che ora costituiscono i nuovi spazi dell’accumulazione allargata del meccanismo capitalistico. Fondamentale è stata l’espansione avvenuta, nell’impresa manifatturiera e dei servizi (soprattutto con l’introduzione delle tecnologie dell’informazione e dei microprocessori al silicio), della produzione e del commercio internazionale che hanno incrementato in forme prima sconosciute gli investimenti esteri diretti.

L’egemonia dell’impresa nordamericana raggiunge la sua prima acme nell’immediato secondo dopoguerra, con l’esportazione, tramite le imprese multinazionali, di tecnologie e di capacità manageriali in primis nell’Europa capitalistica, forti del ruolo che svolge il dollaro nel sistema dei pagamenti internazionali.

Dagli anni Sessanta del XX secolo in avanti si può veramente parlare di era dell’impresa multinazionale. Essa vede un primo periodo di schiacciante egemonia nordamericana; poi, a partire da quel decennio Sessanta, uno sviluppo della diversificazione e della divisione del lavoro tra imprese multinazionali nord americane e imprese multinazionali europee, che si combina con la crescita del commercio intra-industriale e della produzione tra Usa ed Europa. Negli anni Ottanta cresce la produttività e la redditività delle imprese multinazionali europee e giapponesi e i nuovi paesi industrializzati divengono centri importanti dell’accumulazione capitalistica mondiale, mentre l’egemonia nordamericana ha un temporaneo declino. Con l’emergere, al termine degli anni Novanta del XX secolo, della crisi finanziaria e industriale asiatica, provocata dai crescenti costi economici e sociali di un crony capitalism assai più collusivo e corrotto di quello europeo continentale, l’egemonia delle imprese multinazionali nordamericane inizia nuovamente a connotare di sé il nuovo “capitalismo globale”.

 

Joint-venture e istituzioni finanziarie sovranazionali

Tale nuovo capitalismo è caratterizzato dalle alleanze e dalle joint-venture che massimizzano i vantaggi della cooperazione tra imprese internazionali, lasciando tuttavia libere le forze di mercato di agire più potentemente di quanto non accadesse nel periodo di ascesa delle multinazionali caratterizzato dalla pervasività dei cartelli oligopolistici.

Lo sviluppo più recente delle imprese multinazionali globalmente integrate si combina con il declino dell’integrazione verticale nazionale tra imprese. Una nuova divisione sociale del lavoro sta sorgendo soprattutto tra le imprese dei servizi e della finanza: essa è fondata su una coordinazione crescente tra imprese per incrementare gli accessi alle nuove filiere tecnologiche ed espandere le reti commerciali in sempre nuovi paesi.

Il sistema capitalistico con cui e grazie a cui il mondo si affaccia al XXI secolo con immense risorse produttive è fondato in primo luogo sulle grandi imprese multinazionali

Esso può essere ora distintivamente identificato come quello dell’alleanza tra imprese: un “capitalismo dell’alleanza” per sostenere irreversibilmente l’incremento straordinario degli investimenti esteri diretti in ogni parte del globo. In questa luce il ruolo degli stati nazionali per promuovere la crescita economica si va sempre più riducendo.

Una delle strutture essenziali del “capitalismo globalizzato” è costituita dalle istituzioni finanziarie sovranazionali che esercitano un ruolo compulsivo diretto sui singoli stati, sottraendo a essi via via quote sempre crescenti di sovranità. Allorché a esse si affiancano istituzioni sovranazionali continentali dirette a creare spazi economici caratterizzati dal libero mercato dispiegato tra nazioni (Cee, Mercosur, Nafta, Asean) che hanno di mira anche la creazione di monete uniche e regolamenti unitari di governo delle variabili macro economiche, lo stato nazionale - anche le sue banche centrali, quindi- si avvia al definitivo tramonto. E’ il tramonto delle funzioni sociali affollatesi nel XIX e XX secolo: protezione dell’industria, assunzioni di quote rilevanti di diritti di proprietà, determinazione delle forme del welfare state. Esse si aggiungevano al tradizionale monopolio della forza e dell’imposizione fiscale.

Ora, dinanzi all’emergere di queste forme sovranazionali dell’accumulazione capitalistica che hanno al loro centro l’impresa multinazionale, si teorizza che il nuovo ruolo degli stati nazionali, così come quello delle aree sub-statali (regioni, comunità locali), sia quello di fornire le condizioni ottimali, minimizzando le diseconomie esterne, per favorire la crescita degli investimenti esteri diretti e quindi delle imprese multinazionali che portano all’acme la non sincronia storica tra impresa e stato.

Ma è un tramonto ben modesto e misero rispetto alle aspirazioni, agli empiti patriottici, alle retoriche della morte, che il mito dello stato nazionale ha costruito da due secoli attorno a sé.

Se il XX secolo è stato il secolo della mondializzazione dell’economia, il XXI sarà il secolo della mondializzazione delle società. Dove sia la democrazia non mi è dato scorgere in nessun luogo, se essa s’immagina solo come parte della poliarchia.

 

 

*professore di Storia economica,

Università degli Studi di Milano