Rina Gagliardi - Governo e opposizione, due alternative paradossalmente disastrose

alternative per il socialismo n. 4 - novembre ’07 - gennaio 2008

 

 

 

 

Non è ancora il tempo di un’analisi e di un bilancio “definitivi” del governo Prodi. Ma è già il momento di riprendere il filo di una discussione antica - quasi - come il movimento operaio: se, e a quali condizioni, la sinistra possa partecipare a un governo, anche a un governo borghese, a un’alleanza organica e non occasionale con forze di centro, di centrosinistra, “progressiste”.

Una discussione che, giocoforza, intreccia questioni di principio, valutazioni di fase, esperienze concrete, storia - eventuali “stati di necessità” - e che oggi, specie in Italia, si ripropone nel complesso contesto di una crisi della politica nient’affatto contingente. Se ne ricorderanno i termini essenziali, emersi quando è nata l’Unione e quando si è entrati nel vivo della “scrittura corale” del programma: una parte, alquanto minoritaria, della sinistra si è sottratta in partenza, ritenendo che non esistessero le condizioni minime per stipulare un patto di governo; la grande maggioranza, invece, delle forze politiche, dei movimenti, delle associazioni ha accettato di “esser-ci”, sulla base sia di considerazioni difensive (la pericolosità del berlusconismo e la forza delle destre) sia della necessità indotta dal sistema elettorale (un bipolarismo coatto, tanto generoso nella distribuzione dei seggi quanto chiuso sul terreno dell’autonomia politica). Solo il Prc (e pochi altri soggetti) hanno prospettato un’ottica più ambiziosa e meno “resistenziale”: il governo dell’Unione come terreno di una sfida riformatrice (non riformista), capace di far uscire il Paese dalle secche del declino democratico e di iniziare un percorso, anche parziale, di redistribuzione sociale della ricchezza. Non si trattava, nient’affatto, di rieditare in una qualche forma il “compromesso socialdemocratico” del Novecento, sepolto, esso sì, dalla rivoluzione neoliberista e dalla fine del “socialismo reale”, ma di tentare di produrre, all’interno di un quadro politico fin dall’inizio condizionato dalle forze moderate, alcuni precisi punti di rottura (salari, precarietà, nuovi diritti civili, una diversa politica estera) che ne determinassero, periodicamente, uno squilibrio più avanzato, uno scarto visibile rispetto al passato (non solo il passato di centrodestra), una soluzione di continuità rispetto a un ventennio ininterrotto di politiche conservatrici, specie sul terreno economico e sociale.

Per una sfida di tale portata, al di là della sua apparenza di “modestia”, si davano all’inizio alcune condizioni favorevoli: il vuoto strategico della borghesia, l’assenza cioè di progetti organici e riconoscibili per superare stagnazione e blocco dello sviluppo; le difficoltà del campo moderato e “riformista”, che appariva (ed era) sostanzialmente disperso, oltre che diviso; infine, e non da ultimo, la forza di condizionamento dei movimenti, che hanno ricominciato ad animare il Paese a partire da Genova 2001. Erano, cioè, queste condizioni a rendere pensabile, e politicamente operativa sulla base del programma comune sottoscritto (farraginoso e ambiguo, ma anche aperto e ricettivo), l’ipotesi della permeabilità del governo Prodi rispetto alle istanze di sinistra: non solo e non tanto la piattaforma (o i famosi “paletti”) della sinistra politica, che né doveva né poteva ritagliarsi il ruolo di agente rivendicativo, ma le attese della sinistra socialmente attiva e diffusa. Ed è stato, presumibilmente, proprio il venir meno di queste condizioni, ovvero la loro sostanziale modificazione intervenuta nel corso di questi due anni, ad aver reso la sfida sempre più difficile – fino al rischio incombente del suo fallimento. Si tratterà, a suo tempo, di analizzare partitamente questi processi (dalla nuova “autodeterminazione politica” del fronte borghese alla nascita del Partito democratico, dall’esaurirsi dell’onda alta dei movimenti all’esplosione dell’“antipolitica”, fattore, quest’ultimo, che attraversa e condiziona oggi l’intero parallelogramma delle forze) e di rispondere agli interrogativi che ne conseguono. Per ora, ci limitiamo a tre considerazioni/riflessioni di ordine generale.

 

Trasformazione sociale, innanzitutto

Questa esperienza - o meglio questo esperimento - di governo conferma, tanto nelle sue potenzialità originarie quanto nei suoi risultati concretamente molto deludenti, la validità di una definizione metodica del problema (la partecipazione della sinistra a un esecutivo di coalizione), che non può esser ridotto a una pura questione di tattica, o a una scelta meramente contingente, ma non può neppure esser formulata in via di teoria politica, o di principi validi in ogni tempo o in ogni luogo. A nostro parere, la sinistra può entrare a far parte di un governo, e anzi concorrere a farlo nascere e co-determinarne il profilo politico e programmatico, se ne intravede la necessità/utilità politica e se riesce a realizzare un compromesso soddisfacente. Viceversa, la stessa sinistra può e deve scegliere l’opposizione, se e quando un tale patto si rivela irrealizzabile o fallimentare.

Una tale formulazione non ha nulla a che fare con un approccio di tipo pragmatico, tanto di moda, ma tende a consegnare la questione, pressoché in toto, alla politica, o meglio a una politica fondata sull’autonomia dei soggetti che la abitano. E si fonda su una persuasione di fondo: la collocazione politica - di governo o di opposizione - non è, non deve essere, un tratto costitutivo dell’identità della sinistra alternativa. A differenza della ex-sinistra moderata, ormai in cammino verso il centro, ma anche di parti significative della stessa sinistra-sinistra, la conquista di alcune leve centrali del potere (o come si diceva una volta, “l’ingresso nella stanza dei bottoni”) non può costituire il fine ultimo, la ragion d’essere identificante, l’inveramento strategico del nostro far politica. In parallelo, a differenza di parti significative dei movimenti e della costellazione attuale di gruppi post-dottrinari o settari, l’opposizione non costituisce né il luogo della salvezza né la garanzia di una politica davvero autonoma o finalmente “pura”.

In sostanza, “governismo” e “opposizionismo” prefigurano, certo in termini e con risultati sensibilmente diversi, una quasi identica subalternità all’autonomia del politico, una delle irrisolte viziosità della teoria e della pratica della sinistra: se nel primo è quasi esplicita la riduzione della politica stessa al governo, e quindi l’oscuramento della sua dimensione di rappresentanza e organizzazione, nel secondo è evidente, e talora teorizzato, il disinteresse per i risultati, cioè per l’efficacia dell’azione politica, che perciò tende a coincidere con la propaganda e soprattutto con la delega all’avversario del potere politico.

Ambedue escludono quello che a noi, invece, appare il problema centrale: la politica come strumento al servizio della trasformazione sociale, la sinistra come campo di autodeterminazione delle classi subalterne e delle soggettività antagoniste, l’alternativa di società come meta finale non per un futuro lontano (il socialismo sol dell’avvenire), ma per un domani molto prossimo, non più di tanto separabile dall’azione del presente. In questo senso, e non solo per banali ragioni di libertà (di “mani libere”, secondo un’espressione molto trendy), non ha senso predefinire o predeterminare, in via generale, la collocazione politico-parlamentare.

Insomma, l’errore non è stato quello di aver concorso alla nascita dell’Unione e del governo Prodi, la soluzione salvifica non è quella di liberarsi del governo stesso tornando all’opposizione e passando per un’elezione anticipata dagli esiti prevedibilmente catastrofici. L’errore oggettivo, se così si può dire, sta nella situazione che si è determinata per la sinistra (tutta): un dilemma tra due alternative quasi parimenti disastrose, quali si configurano allo stato delle cose sia la permanenza nell’esecutivo sia la decisione di produrne la caduta. Quando ci si trova, di fatto, stretti dentro una tagliola, quando i costi delle due scelte a portata immediata appaiono superiori (o non inferiori) ai benefici, l’unica strada percorribile, prima di ogni altra, è proprio una terza strada: cambiare il terreno della sfida, lavorare a una diversa agenda di priorità.

“Sparigliare”. E tentare di far maturare, intanto, un’altra ipotesi, un’altra chance, un diverso equilibrio. Non si è fatto così, del resto, in altre fasi della politica italiana, quando appariva possibile, fuori dall’intervento immediato sul quadro politico o contro di esso, ragionare di “equilibri più avanzati” ed eventualmente prefigurarli? Non dovrebbe essere questo, perfino, un dovere della politica - dei suoi esponenti più avvertiti - se non la si vuole interamente schiacciata sul presente, e interamente avvoltolata sulle battute ed esternazioni di giornata?

 

Il compromesso post-socialdemocratico

Ma è lecito, a questo punto, interrogarsi sulla natura del compromesso di governo sul quale oggi, e per il futuro, ha senso puntare: dove esso si colloca positivamente, quali ne sono i connotati e le linee discriminanti, quale ne è, insomma, l’ispirazione. Anche qui, naturalmente, non si dà alcun “manuale del buon compromesso” che possa essere utilizzato una volta per tutte. Un carattere di esso, tuttavia, si può provare a declinarlo: se è vero che siamo nella fase storica della postdemocrazia (secondo la felice espressione lanciata qualche anno fa da Colin Crouch), ovvero dello svuotamento progressivo della politica e delle sue istituzioni, che i grandi poteri economici vivono ormai soltanto come un ingombro e un “lacciolo” di cui liberarsi, si può avanzare l’ipotesi (come ha fatto Fausto Bertinotti) di un compromesso postsocialdemocratico come salvaguardia, e anzi, riqualificazione di spazi della politica. Post, sempre seguendo Crouch, è un prefisso tipico delle epoche di transizione, cioè caratterizzate da conflittualità molto complesse in atto, nonché e soprattutto, dalla possibilità di esiti diversi. Un’alleanza di tipo postsocialdemocratico, dunque, può, potrebbe, determinarsi sull’obiettivo, diventato oggi cruciale, della qualità democratica degli istituti e degli assetti del sistema politico.

Cerchiamo di chiarire ulteriormente questa idea. Post-socialdemocratico, ovviamente, significa prima di tutto “dopo” l’era del riformismo socialdemocratico: la presa d’atto che si è esaurito il ciclo keynesian-fordista e con esso la possibilità di un patto organico, appunto un compromesso virtuoso, tra borghesia e classi subalterne, quello che nella storia ha dato vita ai sistemi di Welfare e che si è retto sulla sequenza crescita produttiva “infinita”, alti salari, alti consumi (in cambio, s’intende, della rinuncia a un’alternativa di sistema e alla pratica del conflitto). Ma significa anche che il sistema politico, e i protagonisti che lo animano, stanno mutando o sono già profondamente mutati - quasi tutti i partiti socialdemocratici attualmente al potere in Europa sono definibili come “postsocialdemocratici”, compreso il Psoe di Zapatero, che ha caratterizzato la sua azione progressista sul terreno dei diritti civili assai più che sulle politiche sociali. In questo complesso processo di transizione, dove avanza perfino la crisi dello schema dell’alternanza (il caso Germania, ma non solo) e la Grosse Koalition guadagna consensi, maturano all’interno dei sistemi politici diverse e contraddittorie tendenze - evolutive o involutive - dal punto di vista dell’apertura, della preservazione di spazi reali di rappresentanza, in ultima analisi di rapporto con la società.

 

Ritorno di proporzionale

Il caso italiano, in proposito, è esemplare. In Italia, siamo giust’appunto alla fine di un ciclo e alle soglie di un ciclo presumibilmente nuovo. Venuta a conclamato fallimento la “riforma” maggioritaria (che non era soltanto una meccanica elettorale, ma un’idea di politica semplificata, personalizzata, leaderizzata, staccata dalla connessione virtuosa con gli interessi delle classi subalterne), si tratta ora di decidere se accelerarla brutalmente, con una sorta di “golpe bianco”, attraverso la semplificazione bipartitica e il sostanziale smantellamento dei partiti, o se tornare davvero indietro, e riassettare il sistema politico su coordinate aperte (il proporzionale, anch’esso, non è solo un sistema di voto, ma anche e soprattutto l’opzione di una politica forte, imperniata su soggetti politici capaci di rappresentanza sociale, insomma un serio antidoto alla involuzione postdemocratica). In palio, non è solo la sopravvivenza, ma l’autonomia della sinistra: non solo, come dicevamo sopra, per la libertà di stipulare alleanze, di non dover esser posta di fronte alla scelta costrittiva tra ruolo di governo e marginalità, di poter insomma liberamente decidere la propria collocazione politico-parlamentare, ma per il freno che una sinistra autonoma potrebbe imporre ai processi di scomposta modernizzazione - americanizzazione - in corso.

Non intendiamo dire, ovviamente, che un sistema elettorale proporzionale è la panacea di tutti i mali - e men che mai che esso “varrebbe una Messa”, varrebbe a giustificare, cioè, qualsiasi compromesso o accordo di governo.

Intendiamo, piuttosto, indicare un piano di lavoro, un terreno, una direttrice che ci paiono imprescindibili: in un Paese “senza politica”, o che si dota di un sistema politico chiuso, nella sua sostanza e anche nella sua forma, alla rappresentanza incidente della sinistra, la sinistra potrà decidere qualunque collocazione - dalla fuga nella “autonomia del sociale” alla partecipazione governativa - ma tenderà inesorabilmente a declinare. Come è storicamente avvenuto in Gran Bretagna, come sta accadendo in Francia e in Spagna (non solo, certo, per responsabilità dei sistemi elettorali e politici). In Italia, ancora per un soffio, c’è la possibilità di evitare questo destino.

Tutto questo - compresa l’ipotesi del compromesso postsocialdemocratico - non risponde certo a un’interrogazione più generale e di fondo, del quale la questione, chiamiamola così, del governo e dell’opposizione, costituisce in realtà soltanto un “derivato”: quali sono le possibilità umanamente prevedibili, per la sinistra a venire, di cominciare a superare la sconfitta storica subita, tornando a vincere o quantomeno tornando a essere protagonista piena della scena sociale e di quella politica? Una domanda (alla quale ovviamente non sono in grado di rispondere) che però, di per sé, ci rinvia alla necessità, quasi sempre evitata, di un confronto “spietato” con la fase storica nella quale viviamo - con la crisi di civiltà che ci sovrasta, con la regressione sociale, culturale e del “senso comune” che galoppa, con l’opacità della politica che avanza a passi larghissimi e sembra privare di senso - di senso concreto e riconoscibile - ogni nostro tentativo. La sinistra nell’epoca in cui il rischio più incombente è quello profetizzato da Marx nel Manifesto: la «comune rovina delle classi» in lotta, proprio nel momento in cui il capitalismo si dimostra un modo di produzione (e di organizzazione della società) radicalmente inadeguato a fronteggiare le gigantesche contraddizioni e i bisogni drammatici del nostro tempo. Ecco forse il tema vero di cui ragionare.