Emiliano Brancaccio - L’afflato europeista alla prova dei dati

alternative per il socialismo n. 5 - febbraio - marzo 2008

 

 


 

 

Il caso Thyssen è stato solo la tragica punta di un iceberg di evidenze: i lavoratori europei non appaiono oggi particolarmente solidali tra loro. Presso le sedi delle confederazioni europee dei sindacati, le rappresentanze sembrano il più delle volte far prevalere gli interessi locali sulla logica alternativa della coesione di classe a livello sovranazionale. In quel che segue, proporremo allora una lettura della “questione salariale” in chiave europea, e in termini non “finalistici” ma “sintomali”. Esamineremo cioè la dinamica delle retribuzioni quale sintomo della disgregazione o della coesione della classe lavoratrice a livello continentale. In particolare, osservando gli andamenti relativi dei salari e degli stipendi in seno all’Unione monetaria europea, ci interrogheremo sul grado di convergenza o divergenza delle retribuzioni nei vari Paesi membri, e più in generale sulla maggiore o minore omogeneità tendenziale delle condizioni di vita delle lavoratrici e dei lavoratori del continente. Senza un minimo di uniformità tendenziale dei livelli e delle quote di ricchezza sociale destinate in Europa al lavoro, è infatti difficile pensare che un subordinato tedesco possa riconoscersi in un suo omologo greco e viceversa, e che entrambi possano quindi ritrovarsi affiancati per difendere un comune interesse di classe.

Naturalmente, il nostro test non ha la pretesa di riempire di mere rilevazioni empiriche la pagina vuota lasciata da Marx sul concetto di “classe”. Esso tuttavia potrà aiutarci a capire se le distanze tra i lavoratori europei siano tali da render velleitario qualsiasi discorso politico sulla unità di classe a livello europeo; oppure, al contrario, se stia iniziando a profilarsi una tendenza comune nelle condizioni di lavoro del continente, e se quindi esistano i presupposti, almeno in prospettiva, per appellarsi politicamente a una classe lavoratrice “europea”. In un certo senso, potremmo definirlo un test sul maggiore o minore grado di “opportunismo” - nel senso di Lenin - presente oggi e in futuro in seno ai gruppi privilegiati della classe lavoratrice europea.

Tutte le cifre riportate in questa sede sono delle elaborazioni nostre e di Domenico Suppa di dati Eurostat e Ocse. I Paesi di riferimento sono i dodici membri dell’Unione monetaria europea (oppure, in mancanza di dati, un loro sottoinsieme comunque significativo). Il periodo considerato va dal 1990 al 2006, con particolare riguardo allo spezzone temporale successivo al 1999, anno di nascita dell’euro. Le retribuzioni considerate sono quelle medie totali, che tengono cioè conto di tutti i settori dell’economia. Per il calcolo della convergenza o della divergenza tra i vari Paesi delle variabili considerate, ci siamo avvalsi di un particolare indice di dispersione, largamente adoperato nella letteratura specialistica: si tratta del coefficiente di variazione al quadrato. Quanto più grande è questo indice di dispersione, maggiore sarà la divergenza tra le variabili dei diversi Paesi. Se invece l’indice di dispersione si riduce, ciò significa che le retribuzioni dei Paesi membri tendono ad avvicinarsi.

Esaminando le nostre elaborazioni si scopre che i salari europei presentano degli andamenti articolati: essi sono infatti convergenti in termini monetari, parzialmente divergenti sul piano dei livelli assoluti reali e fortemente convergenti in termini di quote di prodotto sociale destinate al lavoro. Ma andiamo con ordine. L’indice di dispersione del compenso totale orario del lavoro in termini monetari passa da valori superiori a 0,10 nei primi anni Novanta a un valore inferiore a 0,06 nel 2006.

 

Convergenze e dispersione delle retribuzioni medie europee

Quindi, sul piano strettamente monetario, registriamo una forte riduzione della dispersione, nell’ordine del quaranta percento in meno. Questa marcata convergenza dei salari monetari non deve meravigliare. Essa si deve in buona misura - anche se non totalmente - alla nascita dell’euro, la quale ha eliminato la volatilità dei tassi di cambio e ha ridotto le distanze tra i tassi d’inflazione dei vari Paesi. È naturale quindi che i salari monetari dei Paesi europei siano divenuti più simili tra loro rispetto al passato. Questo dato è già di per sé interessante, ma a noi ovviamente interessano soprattutto gli andamenti dei salari reali, vale a dire delle retribuzioni espresse in termini di potere d’acquisto. Ebbene, riguardo a queste ultime le dinamiche cambiano:

l’indice di dispersione dei salari reali mostra infatti una leggera crescita, da circa 0,065 nei primi anni Novanta a poco meno di 0,08 nel 2006. L’incremento della divergenza è quindi nell’ordine del dieci, quindici per cento. Non è molto accentuata, ma mette comunque in luce che in termini reali le retribuzioni dei lavoratori europei tendono sia pure di poco ad allontanarsi, non certo ad avvicinarsi. In particolare, i livelli retributivi dell’Italia e degli altri Paesi del Sud Europa sembrano decisamente arrancare rispetto agli andamenti delle paghe in Francia, Germania e negli altri Paesi “centrali”, ossia più ricchi e caratterizzati da una maggior crescita della produttività.

Evidentemente non si tratta di una buona notizia per la prospettiva di una maggiore coesione di classe a livello europeo. È chiaro infatti che se i lavoratori francesi e tedeschi vedono comunque aumentare le loro retribuzioni reali, avranno allora qualche ragione in meno per immedesimarsi nella crisi salariale che affligge i lavoratori delle “periferie” europee, e che li vede talvolta addirittura arretrare in termini assoluti e non solo relativi. Tuttavia, l’analisi dei soli livelli dei salari reali non può esser considerata sufficiente per trarre delle immediate conclusioni politiche sul grado di convergenza o divergenza delle condizioni dei lavoratori europei e sulla possibilità di una loro maggiore coesione rivendicativa.

È necessario quindi allungare ancora un po’ lo sguardo, includendo ulteriori variabili nella nostra riflessione. Soffermiamoci allora sullo scarto tra produttività del lavoro e salari reali. In tal caso i dati rivelano non tanto delle differenze, quanto piuttosto delle interessanti similitudini tra i vari Paesi membri dell’Unione. Tra il 1991 e il 2006, il divario tra produttività e salari è cresciuto in Finlandia di 8 punti, in Germania e in Austria di 6 punti, in Francia di 5 punti, in Grecia di 3 punti, in Spagna e in Italia di 2 punti.

Questo significa che in tutti i Paesi la produttività corre molto più velocemente dei salari. Questo è un dato importante, che la dice lunga su un luogo comune diffuso soprattutto nel dibattito italiano, secondo cui i salari aumentano di pari passo con la produttività. È pur vero infatti che l’incremento di quest’ultima allenta le tensioni tra capitale e lavoro e può quindi agevolare una crescita delle retribuzioni. Ma, come si vede dai dati, non sussiste la minima garanzia che ciò avvenga effettivamente. Anzi, i dati rivelano che proprio nei Paesi caratterizzati da una elevata crescita della produttività, i salari sono sì aumentati, ma molto meno di quanto gli incrementi di efficienza produttiva avrebbero consentito. Insomma, la conquista degli incrementi di produttività da parte dei lavoratori resta a quanto pare una chimera, non solo nelle aree periferiche del continente ma anche in Germania e negli altri Paesi centrali dell’Unione.

 

L’andamento della produttività e dei salari reali

Questa diffusa difficoltà si rileva del resto in modo ancor più lampante se guardiamo non ai livelli salariali ma alle quote del prodotto nazionale che vengono destinate al lavoro. A questo riguardo va tenuto presente che la produttività non è altro che il rapporto tra prodotto nazionale complessivo e numero di occupati. Ora, se la produttività cresce, ciò significa che ogni occupato produce in media di più. Ma se il salario reale medio degli occupati non cresce di pari passo con la produttività, è evidente che si ridurrà la quota di prodotto destinata ai lavoratori attraverso i salari, e aumenterà invece la quota spettante a tutte le altre voci di reddito, e cioè principalmente a profitti, interessi e rendite. I dati della nostra ricerca sono chiarificatori e dimostrano che nell’Unione monetaria europea le quote di produzione destinate ai lavoratori tendono a convergere verso il basso.

Dai primi anni Novanta a oggi pressoché in tutti i Paesi dell’Unione monetaria europea si è registrata una caduta delle quote di prodotto nazionale destinate ai lavoratori. Le quote risultano oltretutto convergenti tra loro: tra il 1990 e il 2006, l’indice di dispersione passa infatti da un valore di circa 0,009 a un valore di poco superiore a 0,005, con una caduta vicina al quaranta percento. Se è vero dunque che i dipendenti tedeschi e francesi, sia pur di poco, vedono ancora crescere i livelli assoluti dei loro salari reali, è altrettanto vero che le percentuali di prodotto nazionale a essi spettanti cadono in modo esattamente analogo a quelle dei lavoratori situati nei Paesi più deboli dell’Unione, e inoltre si avvicinano in modo significativo a esse.

Possiamo quindi affermare che le dinamiche in atto producono non soltanto degli sconfitti in termini “assoluti”, come ad esempio i lavoratori dei Paesi periferici, i quali registrano in alcuni casi un vero e proprio arretramento nelle retribuzioni e nelle condizioni di vita. Le stesse dinamiche generano pure degli sconfitti in termini “relativi”, come i lavoratori dei Paesi centrali. Si può allora ritenere che la omogeneità delle sconfitte “relative” dei lavoratori europei, in termini cioè non di livelli ma di quote, risulti sufficiente per scommettere su una futura, maggiore coesione di classe a livello continentale? È questo uno degli interrogativi chiave sul piano politico. Fino a oggi, comunque, non è stato così.

 

L’unità delle classi lavoratrici: Italia o Europa?

Per quanto appena accennati, questi dati dovrebbero offrirci qualche elemento oggettivo per tentare di affrontare un bivio strategico cruciale per il lavoro e per le sue rappresentanze: quello tra questione nazionale e questione europea, vale a dire tra il tentativo di recuperare qualcuno dei vecchi spazi di agibilità politica all’interno delle istituzioni di uno stato nazionale in crisi, e l’opzione alternativa di abbandonare una volta per sempre la logica dei confini nazionali e di invocare uno slancio verso una prospettiva radicalmente europea e globale. Questo bivio, come è noto, si situa alla radice di molti dei problemi che affliggono gli odierni eredi del movimento operaio.

Da diversi anni registriamo, infatti, una vistosa contraddizione tra l’afflato europeista di numerosi leader e intellettuali della sinistra, e l’ostilità montante di larghe fasce di popolazione lavoratrice e operaia verso l’Europa, e più in generale verso qualsiasi forma di apertura al mondo esterno. Riguardo ai lavoratori, essi percepiscono che la progressiva perdita di benessere e di libertà di questi anni - relativa e spesso anche assoluta - è in buona misura derivata dagli effetti di un vincolo esterno sempre più stringente. I lavoratori, infatti, ben ricordano che è proprio alla cosiddetta “globalizzazione” che possono esser fatte risalire le cause dei loro arretramenti, politici economici ed esistenziali.

Dalla crisi valutaria europea del 1992 alle ondate di immigrati in concorrenza sempre più stretta coi nativi, tutti questi fenomeni sono stati alimentati dai processi di apertura e di liberalizzazione capitalistica dei mercati, e tutti hanno contribuito in termini più o meno diretti all’intensificazione dello sfruttamento e alla compressione della quota di prodotto sociale destinata al lavoro. Conseguenza di ciò è che, nel vuoto di uno sfuggente conflitto di classe, i lavoratori si sono resi politicamente sempre più sensibili alle rivendicazioni di carattere territoriale, fossero esse locali o nazionali, grevi o sofisticate, xenofobe o illuminate.

In Italia, buona parte del successo trasversale dell’euroscetticismo e del protezionismo anti-cinese di Tremonti e dei suoi epigoni nasce in fondo dalla capacità dei loro argomenti di toccare i nervi più scoperti della classe operaia. Inoltre, come è noto, fenomeni analoghi attraversano tutta l’Europa, non solo nei Paesi periferici ma anche in quelli centrali.

Riguardo invece ai gruppi dirigenti della sinistra politico-sindacale, essi sembrano talvolta rifugiarsi nella retorica internazionalista e globale utilizzandola in un duplice senso: sia come capro espiatorio che come speranzosa via di fuga rispetto all’impotenza del presente. Insomma, assegnando all’Europa il ruolo bifronte di vincolo stringente ma anche di vaga opportunità, i dirigenti della sinistra sembrano talvolta aver cercato più o meno consapevolmente un temporaneo sbocco retorico per prolungare una sopravvivenza politica sempre più a rischio.

I nodi tuttavia vengono al pettine. Lo scarto crescente tra leader della sinistra europeisti e masse lavoratrici “xeno-scettiche” sembra infatti avere raggiunto un punto critico, alla lunga difficilmente sostenibile. Si pone allora il problema di capire se si possa dare contenuto reale all’afflato europeista dei leader, o se invece sia il caso di accantonarlo, almeno in questa fase storica. La nostra congettura in proposito è la seguente. Se esiste una possibilità di rafforzare la coesione di classe a livello europeo, questa sembra possa derivare solo da una crisi, le cui cause vengano tempestivamente individuate nel fatto che lo schiacciamento delle retribuzioni nei Paesi ad alta produttività impone un crollo dei livelli monetari dei salari nei Paesi periferici, caratterizzati da una minor crescita della produttività. Questo problema, che attiene alle difficoltà di riequilibrio dei conti esteri dei Paesi membri dell’Unione, può essere sintetizzato nei seguenti termini: se i salari crescono poco nella iper-produttiva Germania, allora in Italia e in Grecia bisognerà ridurli in termini assoluti se si vuole contenere un divario di competitività altrimenti insostenibile. Ma le riduzioni assolute dei valori monetari sono pericolose: nella seconda metà del Novecento, come è noto, esse vennero accantonate proprio perché davano luogo a spirali recessive profonde, e talvolta a vere e proprie crisi di sistema.

È chiaro allora che se una crisi dovesse propagarsi a tal punto da colpire anche le condizioni dei lavoratori dei Paesi centrali, e se le cause della crisi venissero subito individuate nel fatto che la pressione al ribasso sui salari è così forte da diventare assoluta in periferia, ebbene forse potrebbe venirsi a creare una “congiuntura” favorevole a un rinnovato internazionalismo di classe.

In definitiva, è dalla corretta interpretazione di una crisi, e della relativa “emergenza” politica che ne deriverebbe, che si può forse immaginare di costituire i prodromi per una reale, fattiva unità di classe a livello europeo. Prima di allora, però, e al di là di questi precisi confini logico-politici, sarà bene evitare di cadere nelle versioni ingenue oggi prevalenti del vecchio internazionalismo trotskista. I dati, infatti, segnalano che il terreno è tuttora fertile per l’opportunismo nel senso di Lenin, e quindi non depongono a favore di un generico afflato europeista.