Rosso di sera

 

 

 

     Perchè appoggio Tsipras

 

Finalmente una buona nuova. La venuta in Italia del candidato della Sinistra europea a Presidente della Commissione europea è un avvenimento politico. Lo è in particolare proprio per il profilo politico e culturale di Alexis Tsipras.

 

Esso configura un’occasione per chi, anche qui da noi, vuole concorrere a cambiare questa Europa, per chi vuole contribuire alla costruzione di un’alternativa all’Europa reale, un’alternativa di modello di società. Intendiamoci, in particolare in Italia, non ci sono scorciatoie, miracoli politici in vista.

 

C’è solo da provare e riprovare a fare un lavoro sociale e politico di impegno e di tessitura nei e tra i movimenti, eleggendo l’Europa a campo permanente della propria azione. Ma in questa Europa, oligarchica e costituente di un nuovo ordine regressivo, si avvicinano le elezioni. Nell’Europa reale le elezioni sono venute perdendo, anche nei singoli paesi che vi aderiscono, un peso politico significativo e sono state, spesso, ridotte ad attività seriale. E’ del tutto comprensibile quindi che esse siano marcate dalla crescita dell’astensione dal voto e da un voto di protesta che esprime il rifiuto di parti importanti della popolazione nei confronti di un sistema politico che le ignora sistematicamente e che concorre a renderle dipendenti dai mercati senza alcun riconoscimento dei loro bisogni e dei loro diritti sociali.

 

Il vuoto lasciato da una sinistra di classe e di popolo e i fenomeni di devastazione culturale prodotti da questa obliqua modernizzazione hanno aperto la strada a che una collera popolare possa essere preda persino di una destra xenofoba e razzista, come già accade in importanti paesi d’Europa. Anche visto da questo lato, quello elettorale, il problema non può però vedere alcuna soluzione se resta racchiuso in questo ambito, quello della democrazia rappresentativa. Esso, infatti, rinvia direttamente a come possa essere messo in crisi il processo costituente del modello economico e sociale europeo plasmato dal capitalismo finanziario e governato dall’Europa oligarchica. Dunque lo svuotamento della democrazia e delle istituzioni europee rimanda alla questione di fondo che si può provare a individuare ragionando sul conflitto sociale, sulle rivolte e sulla necessità di far crescere, al contrario del processo in atto, dal basso, nella società, con le esperienze sociali critiche, che esistono e che possono di molto crescere, un processo costituente di nuova democrazia e di autonoma partecipazione.

 

Ma le elezioni europee si avvicinano e costituiranno comunque un fatto politico non trascurabile sul terreno della rappresentanza e delle dinamiche tra le forze politiche nel parlamento europeo, un fatto capace di qualche influenza sulla architettura istituzionale dell’Europa. In Italia la drammatica situazione della politica e della sinistra, in specie, conferisce a queste elezioni un carattere particolare. Nessuno può più farsi l’illusione che da una presentazione di una lista alle elezioni possa nascere un nuovo ed efficace soggetto politico, il soggetto politico e sociale di cui le forze critiche impegnate nella società invece avrebbero bisogno. Eppure sarebbe bene che esse potessero trovare, anche in questa desolante situazione, una ragione per partecipare al voto. La propensione all’astensione come espressione di un esercizio critico, che sarebbe altrimenti impedito dalla natura delle forze in campo, ha più di una motivazione ed è nient’affatto trascurabile.

 

Nello stesso tempo il voto di protesta, come quello per i 5 Stelle è, in più di un’occasione, suscitato dallo spettacolo indecoroso della politica ufficiale, dalle pratiche antisociali dei governo, dai processi degenerativi e corruttivi della politica. Ma c’è, io credo, una ragione dirimente per voler fare altrimenti sia dall’astensione che dal voto di protesta. Ci dovrebbe essere la possibilità di dare al voto il senso di una scelta, tra l’Europa reale, quella oligarchica dell’austerity e delle diseguaglianze, e l’indicazione, almeno, dell’esigenza di un’altra Europa possibile il cui diverso modello economico e sociale sia sostenuto dall’apertura di un processo costituente dal basso fondato sulle buone esperienze sociali e sulla volontà popolare.

 

Questa possibilità si è dischiusa con la candidatura di Tsipras a Presidente della Commissione Europea, avanzata dal Partito della Sinistra europea e accettata dal leader greco, portatore di una coraggiosa storia politica di sinistra e di innovazione, consolidatosi nella straordinaria lotta di massa del popolo greco contro l’austerity e capace, con la sua stessa candidatura, di parlare la lingua di una radicale alternativa in Europa e di un nuovo protagonismo dei paesi e dei popoli del Mediterraneo. Il campo della contesa qui non sono più i diversi paesi, ma l’Europa stessa.

 

L’appello di diverse personalità italiane, guidate da Barbara Spinelli, per una lista di cittadinanza a sostegno della candidatura di Tsipras offre un’opportunità che forze di diversa cultura politica dovrebbero saper cogliere per far vivere in Europa una presenza di alternativa programmatica e politica anche a quella del centro-sinistra di Schulz, dirigente di quella SPD alleata di governo della Merkel. In questa contesa sul futuro dell’Europa una posizione di sinistra critica oggi ha senso e capacità di attrazione non solo se è contro la destra, ma anche se è alternativa a quel centro-sinistra che è tanta parte dell’Europa reale. I lineamenti programmatici della lista di cittadinanza dovrebbero dimostrare che non si stratta di una riedizione di vecchie contese tra sinistra moderata e radicale, riformista e rivoluzionaria, liberale o di alternativa. Si tratta di una contesa sull’oggi e sul domani, di una contesa sull’Europa.

 

La costruzione di democrazia e la democratizzazione, contro il potere della Troika, dei processi istituzionali; la profonda modifica dei trattati e il ridisegno del ruolo della Bce; la cancellazione del fiscal compact e la definizione di un programma alternativo all’austerity; la ristrutturazione del debito e la sua riduzione; un sostanziale riequilibrio tra i paesi del Mediterraneo e quelli dell’area tedesca: questi sono una prima, ma pregnante discriminante programmatica, da far vivere anche con il voto e nella campagna elettorale. Questi primi lineamenti che però già costituiscono uno spartiacque programmatico, sono già un’occasione per lavorare e mettere in relazione tra loro, in tutti i paesi europei, le esperienze sociali, culturali, politiche che praticano e chiedono un cambiamento; essi possono essere l’occasione per promuovere una campagna diffusa su questi temi capace di arrivare anche laddove la desertificazione della politica ha generato sfiducia e abbandono.

 

Penso che una campagna elettorale come quella che la candidatura di Tsipras e lo stesso appello italiano per la lista di cittadinanza possa dunque rimotivare una scelta di impegno per il voto. Penso che sarebbe bene caratterizzare la campagna elettorale rilanciando, nella società, battaglie come quella per i beni comuni e per la piena e buona occupazione, per i diritti universali di tutti le persone che calpestano il suolo dei paesi europei, nella loro vita come nel e per il lavoro. Penso che sarebbe bene che la campagna elettorale europea vedesse una lista elettorale e la candidatura di Tsipras come la possibilità concreta di far vivere obiettivi qualificanti come il reddito di cittadinanza e forti politiche di discontinuità con le presunte leggi della concorrenza e della competitività, come una politica di riduzione e di redistribuzione degli orari di lavoro e per l’affermazione dei tempi della vita. Penso che in questo modo si potrebbe iniziare quella campagna costituente per una effettiva democratizzazione degli organi di governo dell’Europa e per fare di questa un soggetto politico presente sulla scenario mondiale alla insegna della ricerca della pace. Far crescere e connettere tra loro le esperienze critiche e le lotte sociali è un compito che potrebbe e dovrebbe sostenere questa scelta elettorale, purché essa sia una scelta di campo. Se essa avesse successo dovrebbe subito pensare ad una restituzione del consenso ottenuto, in termini di occasioni da offrire ai movimenti da dentro le istituzioni affinché essi possano dotarsi di strumenti per vivere e proliferare: una lista per realizzare una presenza nella società, radicalmente critica nei confronti dell’Europa reale, di tutte le sue componenti,  per guadagnare un successo al fine di poter offrire, in ritorno, un servizio alla crescita dei movimenti e alla loro connessione, un servizio da offrire a quella che Serge Halimi ha chiamato “la costruzione di una coalizione sociale fiduciosa e vincente”. Bisognerebbe provarci, se una lista di radicale alternativa alla politica così com’è oggi ce ne offrisse la possibilità.

 

Ad ora bisogna aggiungere, all’auspicio, un “incrociamo le dita” perché siamo solo all’inizio di un cammino possibile, ma dall’esito tutt’altro che sicuro. Di buono c’è la candidatura di Tsipras, c’è un campo europeo che potrebbe consentire di superare anche i guai italiani, c’è il buon appello per la lista di cittadinanza (che può far anche pensare a una necessaria e simile iniziativa europea). Purtroppo già si vedono anche le ambigue manovre che nascono dentro la crisi di questa dispersa sinistra italiana e, in qualche caso, il venire alla luce di un antico vizio politicista. Ma, ora, l’arrivo in Italia di Tsipras è più che un incoraggiamento. E’ un’occasione, da non perdere.

 

 

 

     6 aprile 2014

 

 

 

    Pubblicato anche su Huffingtonpost.it

 

 

 

 

    Signor Presidente, Lei non può.

 

Signor Presidente,

Lei non può. Lei non può congelare d’autorità una delle possibili soluzioni al problema del governo del Paese, quella in atto, come se fosse l’unica possibile, come se fosse prescritta da una volontà superiore o come se fosse oggettivata dalla realtà storica. Lei non può, perché altrimenti la democrazia verrebbe sospesa. Lei non può trasformare una Sua, e di altri, previsione sui processi economici in un impedimento alla libera dialettica democratica. I processi economici, in democrazia, dovrebbero poter essere influenzati dalla politica, dunque dovrebbero essere variabili dipendenti, non indipendenti. Lei non può, perché altrimenti la democrazia sarebbe sospesa. Sia che si sostenga che viviamo in regimi pienamente democratici, sia che si sostenga, come fa ormai tanta parte della letteratura politica, che siamo entrati, in Europa, in un tempo post-democratico, quello della rivincita delle élites, Lei non può. Nel primo caso, perché l’impedimento sarebbe lesivo di uno dei cardini della democrazia rappresentativa cioè della possibilità, in ogni momento, di dare vita ad un’alternativa di governo, in caso di crisi, anche con il ricorso al voto popolare. Nel secondo caso, che a me pare quello dell’attuale realtà europea, perché rappresenterebbe un potente consolidamento del regime a-democratico in corso di costruzione.

C’è nella realtà politico-istituzionale del Paese una schizofrenia pericolosa; da un lato, si cantano le lodi della Costituzione repubblicana, dall’altro, essa viene divorata ogni giorno dalla costituzione materiale. La prima, come Lei mi insegna, innalza il Parlamento ad un ruolo centrale nella nostra democrazia rappresentativa, la seconda assolutizza la governabilità fino a renderlo da essa dipendente. Quando gli chiede di sostenere il governo perché la sua caduta porterebbe a danni irreparabili, Ella contribuisce alla costruzione dell’edificio oligarchico promosso da questa costituzione materiale.

Nel regime democratico ogni previsione politica è opinabile perché parte essa stessa di un progetto e di un programma che sono necessariamente di parte; lo stesso presunto interesse generale non si sottrae alla diversità delle sue possibili interpretazioni. Ma, se mi permette, Signor Presidente, c’è una ragione assai più grande per cui Lei non può. La nostra Costituzione è, come sappiamo, una costituzione programmatica. Norberto Bobbio diceva che in essa la democrazia è inseparabile dall’eguaglianza, come testimonia il suo articolo 3. Ma essa, rifiutando un’opzione finalistica nella definizione della società futura, risulta aperta a modelli economico-sociali diversi e a quelli dove sarà condotta da quella che Dossetti chiamava la democrazia integrale e Togliatti la democrazia progressiva. Quando Lei allude ai possibili danni irreparabili per il Paese, lo può fare solo perché considera ineluttabili le politiche economiche e sociali imperanti nell’Europa reale, le politiche di austerità. Ha poca importanza, nell’economia di questo ragionamento, la mia radicale avversione a queste politiche che considero concausa del massacro sociale in atto. Quel che vorrei proporLe è che nella politica e in democrazia si possa manifestare un’altra e diversa idea di società rispetto a quella in atto e che la Costituzione repubblicana garantisce che essa possa essere praticata e perseguita. Il capitalismo finanziario globale non può essere imposto come naturale, né la messa in discussione del suo paradigma può essere impedito in democrazia, quali che siano i passaggi di crisi e di instabilità a cui essa possa dar luogo. O le rivoluzioni democratiche possono essere possibili solo altrove? No, la Carta fondamentale garantisce che, nel rispetto della democrazia e nel rifiuto della violenza, possa essere intrapresa anche da noi.

C’è già un vincolo esterno, quello dell’Europa reale, che limita la nostra sovranità, non può esserci anche un vincolo esterno alla dialettica politica costituita dall’autorità del Presidente della Repubblica. Lei non può, Signor Presidente. Mi sono permesso di indirizzarLe questa lettera aperta perché so che la lunga consuetudine e l’affettuoso rispetto che ho sempre nutrito per la Sua persona mi mettono al riparo da qualsiasi malevola interpretazione e la mia attuale lontananza dai luoghi della decisione politica non consentono di pensare ad una qualche strumentalità. E’, la mia, soltanto, l’invocazione di un cittadino, anche se ho ragione di ritenere che essa non sia unica.

Mi creda, con tutta cordialità,

 

Fausto Bertinotti

 

 

 

23 luglio 2013

 

 

 

 

    I limiti dell'accordo sulla rappresentanza sindacale

 

E’ stato stipulato tra i sindacati confederali e la Confindustria un accordo sulla rappresentanza sindacale. Saccheggiando nei luoghi comuni si potrebbe dire, al proposito, che “un accordo è un accordo” e che “il diavolo sta nei dettagli”. La lunga e pesante vacanza di regole  nelle relazioni sindacali non consente una sottovalutazione dell’intesa a cui va, dunque, riconosciuta una qualche importanza. Il suo contenuto non consente però neppure l’enfasi con cui è stato in generale salutato. Un giuslavorista di valore come Nanni Alleva ne ha già precisamente criticato i limiti. Varrà la pena ricordare alcuni punti deboli che ne evidenziano i piedi d’argilla.

L’accordo riguarda una platea di aziende, quelle aderenti a Confindustria, che rappresentano una parte assai meno grande del passato delle realtà dove opera il lavoro dipendente, inoltre l’uscita da essa della Fiat ha determinato un vulnus non trascurabile nelle relazioni sindacali. Si dirà che questo e non altro era alla portata dei contraenti dell’accordo. Vero e non vero. Questo limite di partenza avrebbe potuto essere forzato da un appello congiunto delle parti al legislatore affinché, con una legge, esso, nella sua autonomia, provvedesse a generalizzarne l’attuabilità. Se si ha presente l’opposizione ad una legge sulla rappresentanza che, sino ad ora, ne ha impedito il varo, si capisce bene quanto questo punto politico sia rilevante (anche ai fini della soluzione di casi Fiat).

L’accordo non vede coinvolti i sindacati non confederali, né prevede che lo siano in futuro. Trattandosi di regole che riguardano tutti i lavoratori, iscritti e non iscritti al sindacato, la questione non è di poco conto. La zoppia è significativa e rilevante anche per le dinamiche sociali del futuro nelle aziende. C’è un punto dell’accordo che un po’ sorprende per la manifesta contraddizione che esso evidenzia. L’accordo non è onnicomprensivo, cioè non regola ex novo l’intera materia. Esso si pone in continuità con due precedenti accordi confederali, quello del 22 gennaio 2009 e quello del 16 novembre 2012, entrambi accordi separati ai quali la Cgil non aderì, mentre è in vigore l’articolo 8 della legge Sacconi che manomette e limita il contratto nazionale di lavoro a favore della contrattazione aziendale, di una contrattazione, nella crisi, spesso peggiorativa della condizione dei lavoratori.

Si può tradurre così lo stato dell’arte: è in atto un processo in cui convergono congiuntamente la legge, i contratti, le scelte politiche delle principali organizzazioni sociali, un processo che prevede la riduzione del peso del contratto nazionale e l’accrescimento del peso della contrattazione aziendale. Questo, dunque, dovrebbe essere il futuro delle relazioni sociali. La contraddizione con l’accordo stipulato si evidenzia nel fatto, clamoroso, che esso regola il primo e lascia scoperto il secondo, quello che dovrebbe diventare centrale nella realtà del futuro. Ma, anche laddove si regola, non mancano le ombre.

Non c’è bisogno di riassumere il cammino dell’esperienza sindacale, né il dibattito che l’ha accompagnato, per sapere che il referendum tra i lavoratori è l’unica forma certa per misurare la validazione dell’accordo sindacale, mentre certo non è, nell’accordo, il diritto al suo ricorso da parte di ogni e tutti i lavoratori. E’ buona la norma che prevede che un sindacato che superi una certa soglia nel consenso tra i lavoratori abbia diritto ad essere presente al tavolo delle trattative, quand’anche non abbia firmato il contratto, ma non è bene che questo consenso venga verificato, e quindi agibile, solo “nell’ambito di applicazione del contratto”. E come fa a perseguirlo chi è escluso, in quanto non firmatario, dall’uso della delega sindacale per la riscossione della quota sindacale ai fini del tesseramento?

Si dovrebbe proseguire assai più approfonditamente nell’analisi di un accordo così impegnativo. Ma si può forse, per un primo sommario giudizio sull’accordo, fare ricorso ad un altro luogo comune: un bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto. Un accordo tutt’altro che storico. La risposta alla crisi della democrazia sindacale resta aperta come quella dell’autonomia del sindacato e del carattere del conflitto sociale.

 

 

3 giugno 2013

 

 

 

 

 

    Franca Rame: una compagna insieme alla quale abbiamo provato a cambiare il mondo

 

Franca Rame è stata, insieme a Dario Fo, una presenza critica e attiva che ci ha accompagnati per questo lungo cammino. Non si riesce a pensare Dario Fo senza Franca Rame. Si può soltanto immaginare il suo dolore ed abbracciarlo con affetto.

Con lei abbiamo riso e pianto, con lei abbiamo provato e riprovato a cambiare il mondo. Mentre la salutiamo con gratitudine e commozione, già ne sentiamo la nostalgia. Abbiamo perso una protagonista della cultura, abbiamo perso una compagna. Non la dimenticheremo.

 

 

29 maggio 2013

 

 

 

 

    Don Andrea Gallo: straordinario testimone di una militanza di fede

 

Che tristezza la perdita di don Andrea. La notizia mi ha commosso, abbiamo condiviso molte battaglie, abbiamo condiviso quei giorni del G8 di Genova… Lui è stato lo straordinario testimone di una militanza di fede che è capace di incontrare e dare voce a tutte le lotte, le indignazioni, la rabbia e la voglia di reagire contro l’ingiustizia, contro le ingiustizie di qualsiasi tipo.

Don Andrea Gallo ha sempre camminato con gli ultimi, con i poveri, sempre stando al loro fianco, chiedendosi però le cause di quella povertà. E chi si domanda quali siano le cause della povertà, ovviamente, viene accusato di essere comunista. Don Andrea è stato “solo” un cristiano intransigente e noi gli siamo grati

 

 

22 maggio 2013

 

 

 

 

   La forza della Fiom

 

La forza della Fiom. Tra i molti meriti della manifestazione nazionale di sabato c’è anche questo, far riemergere dalle ceneri un tema classico della politica, quello della forza. La crisi della politica ha trascinato con sé uno dei suoi canoni significanti: ha messo da parte, con l’idea stessa dell’avversario, la questione dei rapporti di forza nella società. La Fiom, non da ora, ha resistito a questa devastazione e sulla costruzione della forza ha investito, in emblematiche vicende come quelle della Fiat, come nella più generale condizione sociale. La manifestazione nazionale è un fatto e risolleva il problema. Con quali forze ci si oppone al massacro sociale in atto e si mettono in discussione le grandi scelte economiche, a livello europeo e nazionale, che lo provocano?

La Fiom batte un colpo e disvela il problema dei problemi. Intendiamoci, essa sa bene che il problema neppure dalla stessa Fiom è risolto rispetto al suo agire, a partire dalla trasformazione della forza di mobilitazione in forza contrattuale. Ma la manifestazione di sabato non perciò è meno importante, anzi semmai diventa perciò stesso più importante ancora. Bisognerebbe che la Fiom non venisse lasciata sola ad affrontare un problema che sarebbe dell’intero sindacato e di tutta la sinistra se soltanto provassero ad esistere. Per la messa in campo della forza come per la piattaforma sociale della lotta.

Il sindacato dei metalmeccanici ha già offerto un esempio della necessità-possibilità di innovare profondamente gli obiettivi per poter lavorare alla ricomposizione di un mondo del lavoro frantumato dalla riorganizzazione capitalistica, coniugando, caso pressoché unico nel sindacalismo confederale, salario e reddito di cittadinanza e indicando la via della costruzione di una attiva coalizione sociale.

Ora, con la rivendicazione decisiva di una politica di investimenti pubblici per l’occupazione, la Fiom riapre il tema di politiche di riduzione dell’orario di lavoro. Non c’è chi non veda la radicale diversità di questo protagonismo sociale e politico da ciò che passa il convento nella politica corrente, nel governo, nelle istituzioni, nei partiti, compresi quelli della sinistra. La Fiom fa bene a difendere il suo essere sindacato, rifiutando di venire trascinata negli inconcludenti processi che attraversano le sinistre partitiche. Ma è proprio quest’ultimo campo, invece, che dovrebbe far tesoro dell’esperienza del più grande sindacato industriale del paese.

 

16 maggio 2013

 

 

 

 

 

 

  Incarico al Movimento 5 Stelle


Molti, in questi giorni, anche tra i più informati, seguono con sconcerto ciò che accade sulla scena politico-istituzionale del paese. A molti tutto quel che accade appare incomprensibile. In molti tende a prevalere un grande pessimismo sul futuro. Ma le ragioni per le quali si giunge sempre più spesso e sempre più in numero crescente a queste conclusioni sono le più diverse, non riconducibili ad una qualche unitarietà di visione. Si manifesta così una crisi drammatica della politica mentre si genera un ulteriore distacco dei cittadini dalla politica stessa e dalle istituzioni. Personalmente, penso che la crisi sia così profonda da renderle irriformabili dal loro interno. Esse sono dominate, da un’economia che le ha svuotate di senso, sovrastate da un finanzcapitalismo che ha manomesso e compromesso la democrazia in Europa. Penso, perciò, che la sua riconquista sia affidata a quei barbari senza barbarie che attraversano la nostra società. Chi pensa, invece, che la politica e le istituzioni debbano, e possano, essere riformate dall’interno, ha, proprio nella crisi, il suo banco di prova. Le recenti elezioni ne hanno aperta una specifica. Svoltesi all’insegna della governabilità, esse ne hanno falsificato la tesi, malgrado l’esistenza di uno scandaloso premio di maggioranza per renderla realizzabile. Il dopo elezioni sta ogni giorno confermando la sua crisi, senza che dall’interno del sistema politico emerga una qualche convincente via d’uscita. Quelle forze, quelle che pensano necessario e possibile riformare il sistema politico, dovrebbero allora accettare almeno la sfida della realtà. Una nuova forza politica, il M5S, è stato portato dal voto al centro della scena della democrazia rappresentativa, in primo luogo, proprio perché portatore della critica e dell’opposizione a questo sistema. Perché non lo mettono alla prova cercando di farsi forza con ciò che altrimenti loro non hanno? C’è un solo modo per farlo: chiedere che venga conferito l’incarico di Presidente del Consiglio ad un esponente del M5S indicato dallo stesso movimento. Un incarico forte e incondizionato.

Se il sistema attuale è senza via d’uscita visibile a occhio nudo, venga dato l’incarico di governo a chi ne ha proposto più drasticamente il cambiamento. Esso passerebbe così da oggetto della consultazione al suo soggetto, quello con le cui proposte di governo tutte le altre forze politiche dovrebbero confrontarsi. Intendiamoci, sarebbe ugualmente fuori dalla portata dell’operazione, quella che a me sembra la questione centrale dell’Europa di oggi, il suo modello sociale, la mortificazione sociale e civile delle popolazioni prodotta dal rovesciamento del conflitto di classe agito oggi dalle classi proprietarie contro quelle subordinate. Ma essa, del resto, si decide comunque su un altro campo di gioco. Nella crisi politico-istituzionale ciò che è chiamato direttamente in causa è il disastroso sistema politico del paese, svuotato da ogni forma di democrazia reale. Se il tema è la sua riforma dall’interno delle istituzioni, non è ragionevole affidare l’incarico di governo a chi ne ha fatto il suo profilo e su di esso ha ottenuto un consenso elettorale persino inaspettato? Esso non ha preso la maggioranza dei voti, ma nessuno, di fatto, l’ha conquistata. Allora i ‘riformisti’ di ogni campo dovrebbero dare prova non di coraggio ma di realismo. Essi possono essere oggi, rispetto a questa specifica impresa, forze di complemento, non i protagonisti. Chiedano dunque che sia dato l’incarico di Presidente del Consiglio ad un esponente del M5S e si accingano a collaborare positivamente al formarsi del suo governo.

 

 

     2 aprile 2013

 

 

 

 

 

 

   Perchè non vale la pena firmare l'appello di Umberto Eco


Personalità di primo piano della cultura democratica italiana hanno sottoscritto un appello, primo firmatario Umberto Eco, per un voto a favore del centrosinistra alle ormai vicine elezioni. Il più eminente esponente della sinistra italiana, Pietro Ingrao, si è espresso autonomamente nella stessa direzione. Malgrado l’autorevolezza dei firmatari, se si trattasse solo di una scelta di voto, non troverei ragione, oggi, per dibatterne pubblicamente.

Lo stato drammatico della politica e del sistema politico-istituzionale del paese, la crisi di prospettiva della sinistra, testimoniate, da ultimo, anche da un’orribile campagna elettorale, rende la scelta di voto legata alla storia personale di ognuno e a propensioni individuali di non facile diffusione. Del resto altre personalità della sinistra si accingono a votare per la lista Ingroia e ne conosco direttamente altre ancora che voteranno per la lista di Grillo.

Quelle che, invece, andrebbero discusse in uno spazio pubblico sono le tesi che vengono affacciate nell’appello perché esse, secondo il linguaggio della tradizione, sono di ordine strategico. Esse riguardano, infatti, la relazione tra il governo del paese, la democrazia, il rapporto tra le classi e tra queste e l’assetto istituzionale. Ed è proprio il ragionamento su questo ordine di cose che nell’appello non convince affatto. C’è, alla sua base, un’omissione non innocente e, io credo, capace di falsarne l’intera argomentazione.

L’omissione riguarda l’Europa reale, la costituzione materiale che ne sta definendo la natura sociale regressiva e il connesso ritorno dell’élites in un ordinamento postdemocratico, sostanzialmente oligarchico. Di fronte alla tremenda sfida che promana da questo processo l’unico cenno che si trova nell’appello riguarda l’esigenza, per il prossimo governo, di essere “rispettabile a livello europeo”, ma per questo basta Monti. Il punto è che, nell’appello, si ragiona come se si trattasse, con il voto di domenica, di scegliere il governo di uno stato nazionale autonomo e sovrano e non piuttosto, com’è nella realtà, di una tessera di quel mosaico che forma la governabilità di questa Europa reale.

Ma trascurare di fare i conti con il vincolo esterno, ora che si è fatto tanto stringente da introdurre nella Costituzione il dogma liberista della parità di bilancio, significa ridurre ogni programma di governo a parola scritta sulla sabbia. Mario Draghi, lucidamente, dal punto di vista del processo economico e sociale che si sta imponendo, ha prospettato l’avanzamento dell’integrazione europea e del suo governo unitario sotto la guida della condizionabilità, cioè subordinandola all’accettazione, da parte dei governi nazionali, del vincolo esterno al fine di demolire sistematicamente lo stato sociale e il contratto collettivo di lavoro, cioè quei capisaldi del compromesso democratico del ciclo storico precedente, considerati oggi incompatibili con la nuova Europa del capitalismo finanziario globale. La disoccupazione di massa, la crisi della coesione sociale, l’esplodere delle diseguaglianze che ci hanno investito sono le conseguenze sociali della crisi e della risposta che l’Europa ha dato ad essa.

Come si fa ad attendersi “un colossale mutamento di rotta nei confronti delle classi lavoratrici e dei ceti dirigenti” senza che venga messo in discussione ciò che determina gli attuali rapporti sociali? Però nessun governo in carica lo fa e nessun programma per un nuovo governo se lo propone. Il centrosinistra in tutta Europa si colloca all’interno di questo quadro, con una propria ispirazione, ma al suo interno. L’ispirazione è una ennesima variante di quella social-liberale: ferme le politiche di rigore, rinnovata l’adesione alla filosofia della competitività, si affermano parimente l’esigenza di integrarle con dei correttivi sociali e per lo sviluppo. Nel centro-sinistra hanno abitato anche monocolori socialisti, non bisognosi di quale che sia alleanza, autosufficienti.

L’esperienza di governo nella crisi ha devastato il Pasok. Oggi, in un grande paese come la Francia, il governo di Hollande, dopo una bella vittoria elettorale, sprofonda, secondo tutti i sondaggi, nel consenso popolare. La resa del governo ai mercati nella vicenda della Mittal non è apparsa affatto come un caso eccezionale. Del resto domenica nell’editoriale di Le Monde si leggeva: “Dans les semaines qui viennent, pour convaincre Bruxelles, le gouvernement va donc devoir présenter un programme précis d'économies. Toutes seront douloureuses”. L’accettazione della parità di bilancio, del fiscal compact, il compromesso sistemico con la guida tedesca del convoglio, definisce la collocazione strategica del centro-sinistra in Europa. Su quel versante, rien ne va plus. Il centro-sinistra italiano non è certo l’eccezione. Del suo profilo programmatico si dovrebbe perciò discutere piuttosto che dell’alleanza con Monti. Del resto è stata la sua esposizione alle politiche di rigore che non ha consentito al Pd di impedire la nascita del governo Monti, come avrebbe potuto, con il ricorso alle elezioni.

Così come quella stessa cultura politica ha impedito di vedere il carattere costituente dello stesso governo Monti nel concerto della costruzione di questa Europa reale. Persino in una campagna elettorale in cui se lo è trovato come competitore, Monti è stato criticato dal centro-sinistra per delle sgrammaticature politiche, per certe sue idee di relazioni tra i soggetti politici, per qualche spezzone di proposta, ma mai è stato denunciato il suo impianto generale. Torna la questione illustrata dall’Europa reale; quello è lo spartiacque per chi voglia intraprendere la via delle riforme sociali. Semmai la specificità italiana lo accentua, dunque lo rende ancor più insormontabile politicamente, un aut aut. Da noi il rovesciamento del conflitto di classe, di cui ha parlato Luciano Gallino, è del tutto squadernato. Marchionne ne è la punta di lancia con la proposta di un modello aziendale intrinsecamente autoritario.

Diversamente dalla Fiom, il centro-sinistra ha scelto di non vederne il carattere più generale, di società. Come a livello macroeconomico, per le politiche di bilancio, così a livello microeconomico, per le politiche dell’impresa, non è stato messo in campo un pensiero critico, né la ricerca di un’alternativa di società, né la ricerca della forza per riaffermarla. Perché dal governo dovrebbe venire quel cambiamento che neppure è stato prima prospettato dalle forze che lo dovrebbero comporre? E come potrebbe esso realizzarsi nell’accettazione di quella cornice europea che porta con sé già l’essenziale del quadro? Se poi si volesse davvero insistere sul caso italiano non ci si potrebbe ormai più sottrarre al suo specifico, cioè al collasso del suo sistema politico e alla crescente delegittimazione della sua classe dirigente.

Basti pensare a quel che sta accadendo in queste settimane, alla bufera che investe grandi aziende pubbliche, grandi banche e tanta parte della finanza privata, cosicché la corruzione diventa un grande problema politico. Ma questa classe dirigente non è anche tanta parte della forza messa in campo in questi anni per perseguire le linee di politica economica e i rapporti sociali affermatisi con la costruzione dell’Europa reale, al contrario di quella di cui ci sarebbe stato bisogno? Eppure non si vede all’orizzonte alcuna idea di rottura, di costruzione di una nuova classe dirigente del paese in discontinuità con l’attuale, sicché la questione del governo del paese se da un lato risulta sussunto dentro l’Europa della Troika, dall’altro, nel paese, risulta come un caciocavallo appeso, privo della nervatura sociale necessaria per essere protagonista della sua storia futura. L’autorevolezza di un appello al voto può allora favorire una qualche propensione a compiersi, ma il suo contenuto politico non convince affatto, se il tema è quello del cambiamento. Se no, perché il voto di protesta sta diventando un’onda imponente che scavalca le sinistre per depositarsi su altri lidi?

 

 

     18 febbraio 2013

 

 

 

 

 

 

   Auguri, Presidente Chavez


Nel mondo intero sono in moltissimi a trepidare per la salute e la vita del Presidente Chavez. Le ragioni sono note. Chavez continua a rappresentare l’idea di riscatto del popolo venezuelano che nel suo Presidente ripone tanta parte delle sue speranze.

In numerose elezioni democratiche, fino all’ultima più recente, il voto del popolo lo ha affermato inequivocabilmente. Perciò è bene che si formi un’opinione pubblica democratica che, nel mondo, contrasti il tentativo dell’opposizione politica venezuelana di destabilizzare il paese speculando cinicamente sullo stato di salute del suo Presidente. Possa, dunque, proseguire il cammino riformatore che Chavez e la sua maggioranza hanno intrapreso per espressa volontà del corpo elettorale.

Al Presidente Chavez gli auguri per la sua vita e per il suo futuro.

 

 

10 gennaio 2013

 

 

 

   Pannella senatore a vita

 

Caro Presidente,

mi piacerebbe saper iniziare con la stessa intensità e leggerezza di Boris Vian. Ricorda? “In piena facoltà, egregio Presidente, le scrivo la presente che spero leggerà”. Ma non ho la drammaticità di chi interpreta il disertore, ne la nascosta sicurezza di chi sa che la missiva arriverà a destinazione per la forza dell’atto a cui si accompagna. Eppure, la preghiera che Le rivolgo vorrebbe averne l’intensità. L’Italia ha perduto una personalità che l’ha interpretata nella sua anima più preziosa, scientifica, culturale e civile insieme, ha perso Rita Levi Montalcini. Era Senatrice della Repubblica, Senatrice a vita. Il nostro Senato ha, ora, un vuoto.

Ella, nel suo ultimo, solenne discorso di fine anno agli italiani, ha parlato di una delle tragedie del nostro paese, quella delle carceri: la vita inumana dei carcerati e delle persone che ne hanno cura; lo stato di intollerabile illegalità che le avvolge. Non posso che fare fede all’autenticità della Sua denuncia, alla Sua partecipazione al dolore umano e alla denuncia della sistematica violenza che la Repubblica continua a perpetrare contro le persone e contro le sue stesse istituzioni.

Signor Presidente, mi lasci dire che non c’è alcuna innocenza invocabile a questo proposito. Siamo tutti colpevoli. Tutti tranne qualcuno. Tra questi qualcuno c’è sicuramente Marco Pannella. Da tempo, Pannella mette in gioco il proprio corpo per salvare, con la vita delle persone in carcere, l’onore della Repubblica. Sarebbe di cattivo gusto parlare della vita di questo cittadino della Repubblica, Lei la conosce bene. Piuttosto vorrei rispettosamente chiederLe di fare quello che Ella può per concorrere, con la Sua autorità, all’impresa in cui Pannella è impegnato per salvare l’onore della Repubblica. Ella non può, forse, risolvere il problema delle carceri, ma può dire, nella forma più solenne, che Marco Pannella interpreta il senso più profondo di questo impegno. Quel seggio vuoto, lasciato da Rita Levi Montalcini, Lei, signor Presidente, lo riempia di una grande passione civile, della testimonianza di una storia che parla la lingua di un futuro che tutti vorremmo abitare: nomini Marco Pannella Senatore a vita.

Buon anno, Presidente.

    

 

4 gennaio 2013

 

 

 

 

   Occasione mancata

 

E poi dicono che uno diventa pessimista. All’avvicinarsi delle elezioni, l’idea per la sinistra radicale di saltare un giro era apparsa un po’ provocatoria anche a chi l’aveva formulata. Tanto che è stata messa da parte appena s’è affacciata la possibilità di attraversare queste brutte elezioni con un’innovazione promettente a sinistra, fuori dal recinto e con la volontà di respirare l’aria del conflitto. Ma essa è già andata perduta, costringendo, di fatto, all’abbandono l’area che più aveva investito sull’innovazione di metodo, quasi a farne una pregiudiziale per dare credibilità alla assai difficile impresa di fare forza politica ed elettorale attraverso la critica e il contrasto con l’Europa reale, quella neoautoritaria del primato assoluto del mercato e della competitività, l’Europa plasmata dal capitalismo finanziario. Non aver trasformato il fallimento in un ulteriore lacerante conflitto a sinistra è una buona cosa, ma non cancella la delusione per un’ennesima occasione perduta. Invece essa può, forse, diventare un’occasione per riflettere ulteriormente su come e da dove si debba partire per ricominciare una storia di sinistra, su quali siano le condizioni minime necessarie per intraprendere il cammino.

Senza una radicale discontinuità col passato, il morto mangia il vivo. La discontinuità è necessaria non solo per ricostruire il rapporto perduto tra la politica e l’esistenza ma anche per poter recuperare il meglio della storia del movimento operaio. Vale per la grande politica, ma, dobbiamo constatarlo, vale anche per le elezioni. Personalmente l’avevo imparato anche direttamente riflettendo autocriticamente sul fallimento dell’Arcobaleno, che pure, allora, mi era sembrato essere realisticamente l’unica possibilità di aggregazione a sinistra. Il realismo non è più una virtù. La discontinuità è una precondizione per la riuscita dell’impresa. La discontinuità prima, rispetto alla presentazione alle elezioni, è l’assunzione della più rigorosa pratica democratica: una testa un voto, su tutto, dal programma alle candidature. Democrazia e trasparenza. Senza eccezioni. Se si accetta l’eccezione, chi la determina è il sovrano. Il sovrano partitico (oggi, non ieri) è, a sinistra, mortifero. Come quello del leader assoluto.

Forse, davvero, la ricostruzione della rappresentanza istituzionale a sinistra non può che passare per l’organizzazione della coalizione sociale e per il formarsi di sue proprie istituzioni. Ma, almeno, andrebbero banditi i cartelli di forze preesistenti, l’occupazione di quote di candidature in nome di rappresentanze partitiche o comunque di eredità pregresse. Questa volta poi, di fronte alla crisi verticale della politica e alla crisi della democrazia, ci sarebbe stato bisogno di una ancor più netta discontinuità. Senza radicalità di programma e di metodo, oggi, non c’è salvezza a sinistra. Non c’è stata neppure dove avrebbe potuto e dovuto esserci, a sinistra, fuori dal campo del governo atteso. Peccato, perché ce n’è la necessità e l’urgenza.

Il campo del governo si organizza muovendo dal profilo tecnocrate ad una delle tante forme possibili di grande coalizione, quella dell’alleanza tra il centrosinistra e il centro. Il centrosinistra si modella per essere parte organica della coalizione di governo di questa Europa. Bersani ha condotto con intelligenza e sapienza tattica il PD ad esserne il perno riconosciuto. La sua base di massa e la sua solidità è, purtroppo per chi come noi pensa che questo è invece proprio quello che andrebbe combattuto, il miglior fattore per l’integrazione nell’Europa mercantilista e, sostanzialmente, tecnocratica. Un’operazione non priva di contraddizioni, ma molto insidiosa. Monti punta a costruire l’altra componente, quella borghese. Il suo è un gioco spregiudicato e con più di una sgrammaticatura istituzionale, ma può sorprendere solo chi non ha saputo leggere il carattere costituente del suo governo che ora si trasforma in una costituente di soggettività politica, il partito borghese sotto le insegne dell’Europa del patto di stabilità e con il sostegno, seppur periclitante, del Vaticano. Finora l’operazione, più volte tentata in Italia nel passato, è sempre fallita (come quella speculare del partito socialdemocratico). Ma ora c’è una novità, c’è una grande levatrice in campo, l’Europa reale e, in Italia, si annuncia la nascita della terza repubblica. Si profilano così, per usare il linguaggio moroteo, due storie parallele, una storia di convergenze, una storia di divergenze, ma sempre parallele, cioè interne alla stessa idea di società: l’economia sociale di mercato nel tempo però del capitalismo finanziario, poco sociale e molto di mercato. Da noi è facile prevedere divergenze parallele in campagna elettorale e convergenze parallele alla prova del governo. Per chi pensa che, oggi, in politica, come nel lavoro e nella società, il discrimine sia proprio l’Europa reale, quella della parità di bilancio, del fiscal compact, incompatibile persino con lo stato sociale ancora esistente, ne viene come conseguenza che la costruzione dell’alternativa sociale e politica a questo modello regressivo dell’Europa, non può che collocarsi fuori da questo recinto. Perciò è significativa l’attesa di un’alternativa anche nel voto. Perciò la delusione di un’occasione mancata non deve distrarre le forze, che così pensano e che così agiscono, dal compito principale. Credo che persino in campagna elettorale non dovrebbe mancare la loro voce. Se istanze di movimento, come le realtà che hanno provato a portare, senza riuscirci, queste idee anche nella formazione delle liste, le faranno vivere in forma originale, indipendentemente dal voto, anche nella campagna elettorale, con mobilitazioni dirette per la democrazia, per il lavoro (per esempio sulla proposta Gallino per l’occupazione), per la cittadinanza, per l’ambiente e la salute, allora il tempo di una campagna elettorale, che si annuncia pessima, non sarà tempo perso.

 

2 gennaio 2013

 

 

 

    Una lista alternativa a Monti e al centrosinistra

 

Mi sembra che questi primi cenni di campagna elettorale confermino tutte le analisi espresse negli ultimi numeri di alternative per il socialismo, a partire da “L’opportunità della rivolta” dell’ottobre dello scorso anno.

La ristrutturazione dell’economia prodotta dal capitale finanziario, in risposta alla crisi, è accompagnata da una vittoria ideologica delle classi dirigenti realizzando, così, un vero e proprio rovesciamento della lotta di classe agitata, adesso, dai padroni contro i lavoratori, contro i popoli e i giovani in particolare. Appunto, come dice il movimento di Occupy Wall Street: «Noi 99%, voi 1%». Per difendere gli interessi di questo 1%, si è costruito un recinto in cui si consuma la crisi della democrazia, della politica e della sinistra.

La politica ha così divorziato dalla vita delle persone. Per questo, dentro il recinto, non c’è salvezza e i governi dei Paesi europei diventano la lunga mano del governo neoautoritario di Bruxelles. Anche il recente caso francese, sul quale si erano riversate tante speranze, dimostra che, in questo periodo politico e in quest’Europa reale, il governo è una trappola nella quale rischiano di cadere anche le migliori intenzioni. Al contrario, bisogna rompere quel recinto per ridare voce a una politica che ricominci dalla democrazia e dai diritti sociali e civili. Rivolte, movimenti e lotte stanno attraversando l’Europa e l’Italia. Nuovi soggetti si affacciano sulla scena. E’ a questa realtà che si dovrebbe applicare la politica per far rinascere la sinistra.

L’avvio della campagna elettorale avviene sotto i peggiori segni. E, mentre ritorna anche Berlusconi, prende corpo, per la prima volta in Italia, un partito borghese che, sotto l’insegna di Mario Monti, può diventare un partito di massa. Come era facile prevedere e come avevamo previsto, il governo Monti è stato un governo costituente. La piattaforma politica e programmatica sulla quale il centrosinistra ha effettuato le primarie, e con la quale si presenta alle elezioni, non rompe con questo quadro, non ne rappresenta un’alternativa ma, accettando di fatto il dettato centrale delle politiche di rigore, ne configura solo una versione emendata.

C’è bisogno di ben altro e di tutt’affatto diverso. Una lista di alternativa a quest’Europa reale sarebbe un bel segno e meriterebbe un incoraggiamento.

 

            21 dicembre 2012

 

 

 

  Le primarie un evento senza futuro per la sinistra

 

Queste primarie del centrosinistra, come era prevedibile, si sono tramutate in un fatto di superficie, sotto il quale è rimasta nascosta la politica vera: cioè l’oggetto della contesa aperta in Europa tra le politiche delle classi dirigenti e le rivolte sociali. Esse possono incantare gli innamorati della politica-politicienne che pure si poggia, in questo caso, sulla base di un fenomeno importante e da rispettare come la partecipazione di più di tre milioni di persone.

Ma, nel fondo, ci troviamo pur sempre di fronte a un evento politicamente insignificante, poiché la piattaforma programmatica con cui il centrosinistra ha organizzato le consultazioni è sostanzialmente interna a quello che abbiamo chiamato il “recinto”. La piattaforma programmatica su cui si è svolta la contesa è tutta interna a questa “Europa reale”, le cui scelte di politica economica sono sempre più evidenti nelle loro drammatiche conseguenze sulle condizioni sociali delle popolazioni europee.

Invece la politica, e in particolare la politica della sinistra, può rinascere soltanto fuori e contro questo “recinto”. E, da questo punto di vista, nelle ultime settimane possiamo registrare alcuni fenomeni importanti e significativi; come, ad esempio, le forti mobilitazioni in alcuni paesi europei: in Spagna, Grecia, Portogallo e anche, finalmente, in Italia.

Nel nostro Paese, in particolare, sta emergendo tra gli altri un nuovo soggetto al quale dovremmo dedicare grande attenzione. Esso è costituito dagli studenti medi che possono diventare protagonisti di una stagione di mobilitazione e di lotta del tutto originale. Un altro pezzo di quella costellazione di movimenti necessaria per ricostruire una capacità critica nei confronti di politiche economiche e sociali disastrose. Una componente inedita che, non per caso, incontra la lotta dei lavoratori per l’occupazione, i diritti sociali e la dignità delle persone che lavorano.

 

           30 novembre 2012

 

 

 

 

  Più di una speranza


        In occasione dello sciopero generale del 14 novembre (imponenti quelli della Spagna e del Portogallo), in Italia i protagonisti della giornata di lotta sono stati gli studenti medi.

       Visti a Roma in corteo facevano impressione: un'onda lunga, grande, montante; tante teste e corpi uno accanto all'altro, senza capi, senza partiti, senza bandiere. Dal Colosseo una sola se ne vedeva, lontana, con i colori dell'anarchia.

         Forse si affaccia sulla scena sociale un nuovo soggetto. Potrebbe già essere più di una speranza.

 

        15 novembre 2012

 

 

 

 

 Pensioni: Legge Fornero manifestazione di sadismo sociale


       
Quest’anno è andato in pensione il 35% in meno dello scorso anno. Dice l’INPS che “sull’età di pensionamento abbiamo recuperato in poco tempo. Nel 2010 la media era sotto i 60 anni, l’anno scorso eravamo a 60,3 e ora siamo a 61,3. Si sta allungano l’età lavorativa delle persone”. Peggio per i lavoratori, meglio per le casse dell’INPS.

        Dice l’INPS che, sul fronte previdenziale, “l'Italia è fra i Paesi più virtuosi nel panorama europeo”. Dice l’INPS che “i conti sono a posto, il sistema è già in sicurezza”. La legge Fornero non è ancora attiva ma il sistema è già in sicurezza. Non si dovrebbe allora chiedere l’abrogazione immediata della legge Fornero? C’è qualcuno che porterà in Parlamento una proposta di legge per la sua abrogazione?

       La riforma del sistema pensionistico, realizzata dal governo Monti, non serve più alla messa in sicurezza dell’INPS, semplicemente perché l’INPS ha già raggiunto questa sicurezza. Sarebbe soltanto una manifestazione di sadismo sociale come testimoniano i cosiddetti “esodati”. I conti dell’INPS, secondo l’INPS, sono in sicurezza, il più è del demonio!

 

        24 Ottobre 2012

 

 

 

 

 Nel documento per le primarie Pd e alleati non citano Monti.
 Una curiosa omissione.


          Le elezioni si avvicinano e con il voto riaffiorano, nella sinistra, appena riverniciati i suoi vizi più antichi. Siccome sembra aver ereditato dalla sua storia, non le virtù, ma soltanto i vizi, questi stessi diventano come dei tic così grandi da prendere il posto della fisionomia intera del suo protagonista.

        Si comincia, va da sé, dalla demonizzazione della sconfitta. Dato lo schieramento elettorale che il centro sinistra (o progressista che sia) si dà e la sua piattaforma di massima, chi lo critica lo fa perché innamorato della sconfitta. La sconfitta è, del resto, solo e nient’altro che una condanna che può colpire il “popolo dei cancelli” nei 35 giorni di lotta alla Fiat, come i referendari per l’estensione dell’articolo 18 dello Statuto dei diritti dei lavoratori o come la Fiom che si oppone a Marchionne a Pomigliano. Funziona anche come monito per il futuro.

Forse, bisognerebbe essere Mao Tse-Tung per pensare che da una certa sconfitta può persino venire una lezione più carica di futuro che da una vittoria. O, almeno, bisognerebbe essere il vecchio Consiglio di fabbrica di Mirafiori.

       Dal marchio della vocazione alla sconfitta, si passa poi, per la scelta del male minore e per l’orrore per la testimonianza e si giunge alla conclusione che ciò che conta è la contesa per il governo e dunque il “voto utile”. Ma utile a chi? Utile a che cosa?

Quando la sinistra politica corrispondeva a un’istanza di trasformazione, la questione del governo veniva indagata, in primo luogo, come possibilità di concorrere ad essa. Allora, per stabilire se ci si potesse e dovesse o no candidare a governare, venivano indagate la materialità delle condizioni oggettive, il rapporto di forza tra le classi e il favorevole o meno disporsi della soggettività e, infine, l’adeguatezza del sistema delle alleanze.

Il dibattito dei primi anni ’60 in Italia ne fa testo, specie nell’elaborazione di chi fu definito riformista-rivoluzionario. Altri tempi, ma questione non derubricata a meno di cadere, come oggi, nella voragine della governamentalità.

        Eppure i fatti hanno, come si usa dire, la testa dura e neppure i tic più forti li possono scavalcare. C’è sul campo, in primo luogo, il governo Monti. Il documento per le primarie del Pd e dei suoi alleati non ne parla. Mi pare curioso che l’omissione venga considerata una buona cosa. Il governo Monti è una realtà che, a sua volta, ha modificato la realtà. Non è una parentesi che, crocianamente, possa chiudersi per esaurimento del compito.

Esso è, invece, un fattore costituente, interno a un più ampio processo che investe l’Europa. Nato e cresciuto su una soppressione della democrazia, cogeneratore di un modello economico socialmente regressivo, di cui con i suoi atti ha costituito dei presidi che investono il presente e il futuro: l’affermazione della centralità delle politiche di bilancio come risposta alla crisi attraverso la parità di bilancio in Costituzione; l’accettazione dei trattati europei e il fiscal compact; la demolizione di parti significative dello stato sociale (i provvedimenti pensionistici), dei diritti dei lavoratori (la menomazione dell’articolo 18 e la legge sul mercato del lavoro), la mutazione ulteriore del ruolo del sindacato con la soppressione (condivisa?) dell’autonomia contrattuale di quest’ultimo.

       Se non ne parli, non è che tutto ciò evapori. Semplicemente e drammaticamente hai accettato che il tuo programma di governo non  si ponga il problema di bonificare il terreno economico e sociale da questo impianto di controriforme, con cui ti appresti a convivere, sfuggendo al quesito su quanto di ciò di cui parli come oltrepassamento del montismo sia compatibile con questo stesso impianto, la cui vocazione dominante è iscritta nella potente vittoria ideologica del nuovo capitalismo e nel pratico rovesciamento della lotta di classe (ora agita dal capitale contro il lavoro, oltre che dalla ridicola proclamazione della scomparsa del conflitto tra l’impresa e il lavoro). Il montismo è una prigione: o ti proponi di romperla, e già così è difficile che tu possa riuscirci, o essa, inevitabilmente, ti ingabbia.

        L’Europa reale è l’elemento sovraordinatore di queste politiche. Non è il caso di tornare ad analizzare la disastrosa linea di condotta dettata dalla troika ai paesi europei e assunta dai suoi governi come una nuova ortodossia. Se ne discosta ormai il Fondo Monetario Internazionale che denuncia l’impraticabilità del perseguimento degli stessi obiettivi dichiarati in materia di deficit e di debito mentre esplode la disoccupazione di massa. E’ una linea criticata da tempo da ampi settori di studiosi dell’economia. E’ una linea che provoca una drammatica crisi sociale e l’esplosione di conflitti (purtroppo non messi a valore da nessuna grande organizzazione sociale o politica, tranne eccezioni, in Italia leggi Fiom).

      Eppure, malgrado tutto ciò, l’Europa reale prosegue sulla linea di austerità, perché la scena attuale della competitività delle merci (mercati) considererebbe incompatibile con essa il modello sociale e il contratto europeo. I governi si sono rivelati del tutto impermeabili a ogni ordine di critica, perché parte organica della costruzione dell’Europa reale oligarchica e definita dalle forze motrici del capitalismo finanziario. Chi scommetteva sul mutamento del colore politico dei governi come possibilità di cambiamento di questa politica è smentito dai fatti. Francia di Hollande compresa. Regge sempre il compromesso a guida tedesca.

     Come ne esci? Con la collaborazione con le “forze del centro liberale”? Ma l’Europa reale non è solo il modello economico sociale imposto dall’ascesa del capitalismo finanziario globalizzato e dalle risposte date dal suo governo reale alla crisi. E’ un’Europa postdemocratica, nella quale la democrazia rappresentativa, sia al centro della sua costruzione che nei paesi membri, è mutilata. Bobbio diceva che la democrazia senza la democrazia economica smette di essere democrazia. Nel Continente la democrazia economica è sostituita dal comando dell’impresa e del mercato e quella rappresentatività è ridotta a simulacro. Le assemblee elettive sono casse di risonanza degli esecutivi. A loro volta il concerto intergovernamentale che ha diretto le politiche europee è guidato dalla troika. La cessione di sovranità è verso una sovranità senza popolo: un’oligarchia tecnocratica ha sostituito la democrazia.

      In questo quadro la domanda di più Europa (in se giusta e necessaria) si rovescia in una sua maggiore integrazione all’insegna della “condizionalità”, cioè dell’imposizione alle politiche nazionali di una ferrea compatibilità con le politiche di bilancio e con i parametri di competitività adottati centralmente. Il vincolo esterno riduce il vincolo interno (i bisogni e i diritti sociali) a pura variabile dipendente. Per noi, in Italia, è il ribaltamento della democrazia concepita dalla Costituzione repubblicana.

      Se le forze del centrosinistra che si candidano a governare ignorano tutto questo, come accade nel documento per le primarie con cui viene scelto il leader, se cioè ignorano le forze avverse e la loro organizzazione si condannano in realtà alla continuità delle politiche in atto, almeno nel loro nucleo portante (parità di bilancio, fiscal compact, logica dei trattati). Se ignori il governo reale, non perciò esso scompare e, allora, il governo formale, quand’anche fosse il tuo, sarebbe irretito nelle sue potenti maglie. E come dicono quelli di Occupy Wall Street gli elettori si troverebbero a scegliere tra la Cola Cola e la Pespi Cola. Ci sono situazioni e momenti in cui il governo, per le forze di sinistra, si rivela un miraggio, quando lo raggiungi esso è scomparso nella realtà. La traversata nel deserto, che certo è assai difficile, richiederebbe allora di sfuggire al miraggio e cercare nuove piste.

 

      18 ottobre 2012

 

 

 

 

 Referendum sull'articolo 18

         
Effettivamente c'è una luce in fondo al tunnel. E' il referendum sull'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.

 

      7 settembre 2012

 

www.referendumlavoro.it

 

 

 

 

Il terremoto dalle intollerabili sembianze di classe

         
Dopo un quarto di secolo in cui si è voluta negare l’esistenza della lotta di classe e proclamare la sua scomparsa, persino il terremoto, nei suoi effetti più drammatici, prende le intollerabili sembianze di classe e le prende in uno dei territori più civili e operosi del paese, quell’Emilia Romagna in cui per più di un secolo il movimento operaio e la sinistra sono stati protagonisti di una gigantesca opera di civilizzazione. La tragedia che distrugge la vita, rivela immediatamente la questione sociale aperta. Nel primo terremoto 4 su 7 sono state le persone uccise sul lavoro, nel secondo 11 su 17.

          Molti di loro, per ragioni di prevenzione, non avrebbero dovuto stare lì a lavorare, ma ormai il lavoro non ha più contratti, leggi che lo proteggano.

          Ci sono edifici dove si lavora e altri no. Quelli dove si lavora, i capannoni, cadono molto più facilmente. Vuol dire che quando gli uomini lavorano sono meno considerati dall’economia, dalla società e dalla politica.

        Può darsi che indignarsi non basti, ma bisognerebbe che l’indignazione almeno travolgesse la classe dirigente di questa società diventata ormai insopportabile.

 

 

      31 maggio 2012

 

 

 

 

Il vento della rivolta è entrato nelle schede


 

Il voto dei popoli europei chiamati alle urne ha rigettato le politiche che le oligarchie stanno perseguendo. I partiti che sostengono i governi sono stati sconfitti ovunque. Il vento della rivolta è entrato anche nelle schede. Ma dal voto non è uscita un’alternativa a queste disastrose politiche.

Dove il sistema politico ha ancora una sua tenuta, dove, cioè, ha manifestato una resistenza alla tendenza prevalente in Europa, come in Francia, il voto, secondo la legge classica del pendolo, segna la sconfitta delle destre al governo e la vittoria dei socialisti che erano all’opposizione. E’ il regime dell’alternanza. Dove la crisi e le politiche liberiste hanno già prodotto tutto il loro effetto devastante e scosso l’intero sistema politico, come in Grecia, il voto seppellisce i partiti della grande coalizione in un’ondata di protesta soverchiante.

L’Italia, che in tutti i sensi sta tra la Francia e la Grecia, vede il voto terremotare gli assetti politici e la protesta montare contro il sistema. Ancora, dove delle forze di sinistra scelgono nettamente una collocazione di opposizione radicale alle politiche liberiste dei governi si dimostrano capaci di raccogliere la protesta. In tutti i casi il voto condanna le forze di governo, ma dal voto non esce un’alternativa.

La riorganizzazione dell’intera sinistra europea non è più rinviabile a meno di spalancare le porte al populismo, a partire da quello così minaccioso di destra.

 

      8 maggio 2012

 

 

 

 

La non-trattativa e l’articolo 18

 

Mentre la politica è sommersa da scandali tanto grandi quanto quotidiani - ultimo quello, clamoroso, che ha investito la Lega - nel Paese reale si gioca uno scontro che ha per oggetto il futuro del lavoro e del modello sociale in cui vivere. Nelle piazze i lavoratori si mobilitano per difendere il loro punto di vista, fino allo sciopero generale della Fiom ma, allo stesso tempo, va in scena tra governo e parti sociali una non-trattativa. Una non-trattativa sul lavoro, senza i lavoratori. Un’assenza clamorosa, totale, organica. I lavoratori e le lavoratrici vengono cancellati come depositari del mandato a negoziare sulla propria condizione, con una proposta autonoma rispetto sia a quella imprenditoriale che a quella del governo (un punto di vista di classe, verrebbe da dire).

Il governo apre il confronto annunciando solennemente che l’avrebbe comunque concluso con la decisione di mutare le norme sul mercato del lavoro, Statuto dei lavoratori compreso. Di fronte all’affermazione del governo di tenersi mano libera, un sindacato rispettoso della propria autorità negoziale avrebbe dovuto rifiutarsi di partecipare al massacro di quel suo bene così prezioso, prendendosi, a sua volta, piena libertà d’iniziativa, a partire da un rinnovato rapporto con l’intero mondo del lavoro. Invece, il tavolo viene imbandito di pietanze avvelenate e avvolto da una coltre d’opacità, con i lavoratori tenuti lontani.

Una non-trattativa, dunque, che segna l’uscita da destra dalla crisi della concertazione e sostanzia la crisi del sindacalismo confederale. La politica sindacale di un lungo ciclo di esperienze negoziali è cancellata: non c’è una piattaforma rivendicativa; non viene elaborata un’analisi condivisa tra i sindacati e con i lavoratori sulla linea del governo e sui suoi prevedibili obiettivi; non è individuato il punto di caduta accettabile del confronto, oltre il quale configurare la rottura. Persino sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori si è evitato di farlo, con un esito infatti politicamente disastroso. Eppure, chiunque sapeva che esso costituiva una cartina di tornasole, essendo, insieme, una diga reale, concreta contro lo strapotere padronale e un segnalatore simbolico dei più generali rapporti di classe. Un punto di valore costituzionale, tanto che quando fu varato lo Statuto si disse che la democrazia aveva varcato i cancelli della fabbrica. Così ci si è esposti persino alla beffa di un padronato che con il sostegno delle destre si dichiara insoddisfatto, in modo da poter ancora essere all’attacco.

E’ stato espulso dalla non-trattativa anche il tema di come si crea lavoro e occupazione, non è stato posto il tema cruciale del salario sociale, mentre si è stabilizzato il regime di flessibilità (e di precarietà). Un disastro che la tardiva, ma utile e persino importante, reazione della Cgil non deve indurre a sottovalutare. Un lungo, ricco e assai diversificato ciclo del sindacalismo confederale in Italia si chiude, in un’Europa ormai post-democratica.

E’ tempo di ricominciare un nuovo cammino.

 

   12 aprile 2012

 

 

 

 

In tante e tanti il 31 marzo a Milano per Occupy Piazza Affari

 

Di fronte alla sfida del governo Monti alla civiltà del lavoro del nostro Paese, ci vorrebbe una grande mobilitazione popolare, ci vorrebbe l’insorgere di una lotta generale e generalizzata.

Ma, intanto, qualcosa si muove e tutto questo qualcosa va osservato e sostenuto come un bene prezioso. Da cosa nasce cosa. E già qualcosa è accaduto.

Lo sciopero generale e la manifestazione nazionale della Fiom hanno influenzato un sindacalismo confederale altrimenti propenso all’intesa. La Cgil ha reagito all’attacco del governo all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori con la proclamazione dello sciopero generale. Ora Cgil Cisl e Uil hanno deciso una manifestazione unitaria sulle pensioni.

Una piattaforma alternativa alla regressiva linea del governo sul lavoro ancora non è in campo, né a livello politico, né a livello sociale, ma essa stessa potrà essere conquistata se il movimento nascerà.

Ci sono nel Paese molte situazioni di lotta. Varrebbe allora la pena di ricominciare a far valere la buona norma di comportamento secondo la quale tutti sostengono le lotte di tutti, anche quando non se ne condivida interamente l’impostazione, essendo unitario l’obiettivo di fermare l’attacco al lavoro del governo Monti. Sarebbe un utile fatto nuovo.

Sabato 31 marzo, a Milano, ci sarà l’iniziativa Occupy Piazza Affari. Sarebbe bene che fossero in tante e in tanti a parteciparvi, per premiare un’azione di lotta politico sociale e per incoraggiarne tante altre.

 

28 marzo 2012